Christian Sinicco (CS): Parco Poesia 2005. Abbiamo incontrato Stefano Massari, autore del libro Diario del pane, uscito a dicembre del 2003 per Raffaelli Editore (nel 2006 ha dato alle stampe Il libro dei vivi, Book Editore), e redattore della lettera elettronica FuoriCasa.Poesia, grazie alla quale vengono selezionati e divulgati testi, la poesia viene “informata”. Qual è dunque il significato del tuo lavoro in internet, e quali le sue prospettive in futuro?
Stefano Massari (SM): Il progetto è nato quasi per caso, da me, Giancarlo Sissa e Alberto Bertoni, animatori di un territorio che non definirei gruppo o associazione, piuttosto dialogo, incontro, dibattito sulle cose che osserviamo, compresi gli autori. S’è formato uno spirito, un comportamento e un atteggiamento nei confronti di noi stessi e degli altri, che si ritrova in FuoriCasa.Poesia: pensavamo a costruire un’interfaccia che comunicasse meglio all’esterno queste nostre intenzioni, non fisse e non una, ma multiple e spesso ignote. La rivista classica è difficile da realizzare poiché ci vogliono soldi e ha una distribuzione mediocre; il sito classico, quello dei gruppi, l’ho sempre visto come qualcosa di statico, più che altro un contenitore, e senza un’idea anche estetica che desse la possibilità al fruitore di interfacciarsi velocemente e con efficiacia.
Il desiderio era quello di andare verso, incontro, e la mail magazine — qualcuno ha coniato questo termine orribile, ma che funziona — è partita. All’inizio l’abbiamo spedita a novecento indirizzi, recuperati attraverso i nostri contatti; ora, dopo un anno e mezzo, siamo arrivati a circa 5000 indirizzi, molti dei quali non italiani (uno delle nostre intenzioni era proprio quella di uscire dai confini). Siamo riusciti ad ospitare, grazie alla mail e al blog, poeti sudamericani o statunitensi; in cantiere abbiamo Lauren Mendinueta, giovane poetessa colombiana e già abbastanza conosciuta, e altri poeti a cui daremo spazio… Poi abbiamo sentito il bisogno di dare una base a questo esperimento mobile con il compito di disseminare indizi di poesia: creare incontro in modo orizzontale, quasi neutrale, anche se abbiamo sempre utilizzato un criterio di scelta, cercando di mantenere il livello della proposta sempre piuttosto alto e tenendo in considerazione le differenze tra la nostra scrittura e le scritture che incontravamo — un criterio fondamentale. Questo modo di procedere ha generato incontri umani e letterari, utilizzando una metodologia e una tecnologia in cui siamo ancora agli inizi e di cui non conosciamo tutte le potenzialità.
CS: Video-Poesia / Internet: quale la tua opinione? Innanzitutto come realizzare una videopoesia?
SM: Io so quello che faccio, e quello che non voglio fare… Il didascalismo televisivo non mi interessa, compreso qualche esempio osservato in questi giorni a Parco Poesia: ci devono essere delle autonomie nella lavorazione quando altre forme come la fotografia, o il video, desiderano incontrare la parola. È un’altra forma della parola poetica. Tra poco partirà un progetto, Secolo Zero, che è la nostra prima uscita pubblica sugli intrecci tra video e poesia. Non ci sono metodi, né punti di riferimento per chi voglia utilizzare questo tipo di strumento. Per me lo scopo ultimo di tutto quello che faccio è la poesia, che è quello stato di tensione che un individuo vive in un presente intimo ed esterno. Tutto per me è orientato a questo, e mi rifaccio all’insegnamento di Antonio Porta: mi piace provocare delle forme e usarne molte per arrivare a questo stato di tensione che definiamo poesia. Canonizzare… Qualcosa scrisse Pasolini in Empirismo eretico sul cinema di poesia, indicazioni quali l’uso di errori di luce nella telecamera, o spostamenti strani della telecamera, alcuni materiali di scarto riutilizzati dal regista e dal montatore. Tutto ciò dà quella particolare suggestione che può rientrare nella definizione di cinema di poesia. Un lavoro sul tempo dell’immagine, ad esempio, già evoca.
Mi piace parlare di eco in questo caso: qualcosa che sta all’interno delle parole e che il lavoro sull’immagine scardina, aprendo una direzione possibile. Quindi chi cerca un’eco nella parole, chi lavora in questo modo, troverà un’altra direzione. Faccio pertanto fatica a trovare una regola a cui le persone debbano fare riferimento, perché non è televisone, non è cinema; è un’altra forma che la poesia può assumere partendo sempre dalla parola, sebbene questa ad un certo punto possa anche scomparire.
Anni fa partecipai ad un’antologia con Salmo dell’attesa, e trasformai il testo in video: mi chiesero un testo, ma gli risposi che gli avrei dato un video. L’antologia si chiama Altri salmi (Gallo e Calzati Editori), e i miei testi sono stati completamente assorbiti durante la lavorazione dal ritmo delle immagini e dal suono, dalla suggestione di un suono. Aspetto che qualcosa mi si formi dentro l’obiettivo, come dentro la penna. Questo è il nodo cruciale del mio lavoro, che riconosco anche in altri che ho potuto osservare nell’ambito del video-teatro: chi si occupa di video poesia dovrebbe guardare i lavori della Raffaello Sanzio, famosissima compagnia teatrale che fa ricerca, molto conosciuta, che integra lo strumento video nella scena — inoltre l’ossatura portante del loro lavoro è sempre un suono, che poi si trasforma. Questo modo di lavorare genera una presenza, una presenza attorno alla poesia, a quel testo, a quell’eco che parte da lì. È un modo per fare critica, è un attraversamento critico di un testo.
CS: Antonio Porta, in un libro dedicato alla pubblicità, ragiona sull’ambiente letterario a partire dal fatto che c’è poca attenzione sulla comunicazione, eleva la pubblicità ad una grande forma di comunicazione, discostandosi in parte da alcune opzioni ideologiche del Gruppo ’63, riguardo la società di massa. In queste giornate trascorse qui a Parco Poesia, abbiamo discusso animatamente sull’organizzazione dell’ambiente letterario, sulla sua sociologia. Delinea delle prospettive per un ambiente letterario etico.
SM: Alberto Bertoni dice che sui cavalli e sulla poesia non mente mai. Forse bisognerebbe smettere di avere quella convenienza a fare le cose; forse ti dispiace anche, delle volte, dire di no a delle persone. In generale — non è una cosa riferita solo all’ambiente — bisognerebbe recuperare l’attenzione sulla nostra esperienza; noi facciamo i video, facciamo la poesia, pensiamo di fare la cultura, creiamo del movimento, mentre il sistema nega l’individualità, nella sua responsabilità. Luis Garcia Montero dice che la poesia difende l’identità, ed è una cosa semplicissima a cui tu arrivi dopo aver attraversato una galassia di comportamenti, atteggiamenti, sistematizzazioni, usi e costumi e abusi, che non hanno a che fare con la poesia.
Oltre il flusso che trasporta tutti noi — l’informazione sulla moda, la stessa televisione ad esempio —, se tu parli con persone che leggono, non solo poesia, ma sono curiose, persone che tentano di essere se stesse, con una presa di responsabilità ogni giorno, se tu vai a chiedere che tipo di poesia esse cerchino, tutte le volte c’è la stessa risposta: chiedono una poesia che dica la verità, che sia onesta, che non si metta a fare giochi di parole, che voglia stupire con effetti speciali. Cercano parole che si aggiungano a quelle che non hanno, semplicemente.
Probabilmente è un’interpretazione mia, ma se questo accade fuori dall’ambientino, noi dobbiamo tenerne conto. Perché non andiamo a sentire ciò che accade fuori di qui — a parte il fatto che io mi considero ovunque, sono ovunque, mi sento bene ovunque, con i poeti o con qualsiasi altra persona che non si occupa di poesia. Ma questa è la mia storia personale, è un tratto della storia di una vita che si manifesta anche in poesia, ma non soltanto. Quando cambio il pannolino a mia figlia, quando gioco o quando mi preoccupo per una bolla sulla sua faccia, tutto questo è in un movimento continuo, è nella vita. La stessa naturalezza deve stare nella poesia. Poi può anche essere oscura la tua poesia, criptica, civile, ma non può succedere questo che abbiamo intorno, dove tutti vogliono manifestare la propria figura, supportandola con il lavoro, ma quando il poeta sparisce.
CS: Come hai creato Diario del pane, e perché una scelta tecnica come quella del punto che stabilisce la pausa del respiro, l’evocazione e il momento in cui essa deve partire?
SM: Ho sentito il bisogno di liberare determinate parole. Venivo da un’esperienza ancora diversa di scrittura, una plaquette mai pubblicata dal titolo Corda occidentale, dove ho esploso completamente il mio immaginario, seguendo esempi come Gilberto Centi e tutta un’aria beat italiana, con una venatura potente di surrealismo. Sono tornato successivamente, dopo una serie di lettura straniere da Adonis a Garcia Lorca, sulla poesia italiana, portando con me la questione del ritmo o della visione quasi profetica. Riattraversando Antonio Porta e scoprendo Milo De Angelis sono riuscito nuovamente a leggere poesia italiana. Sono riuscito a leggere, ad esempio, Caproni — oggi per me fondamentale.
Dopo aver esploso tutto l’immaginario e le parole attraverso Corda occidentale, che è un libro urlato — seppure vi fossero già delle strutture, come il bisogno di sistematizzare il ritmo —, arriva Diario del pane, che è il detrito, ciò che si è depositato dopo l’esplosione. Oggi ho capito cosa mi è accaduto: quelle parole di Diario del pane sono le parole dei miei morti, tutto un passato a cui dovevo dare voce, considerando molto bene il presente vissuto. Il diario ha questa valenza, di condivisione. Il pane è in tal senso cosa antica, riassume e sistematizza queste parole. Avevo poi bisogno di esperire una forma mia, una forma di come le parole uscivano dal corpo. Quindi dalla forma del prosimetro che sto autocanonizzando, avevo bisogno che il testo si disponesse in forma orizzontale, e il punto nella scansione orale — oralità che è fondamentale nel mio lavoro poetico — è lì per ricostruire l’origine dell’esperienza nell’urto tra il sentire e la realtà.