I Room with a view sono un gruppo romano portato avanti dai due chitarristi Francesco Grasso e Alessandro Mita. Alle loro spalle hanno un demo realizzato con diverso monicker e un disco d’esordio su My Kingdom Music che ha goduto di buonissima stampa. Chi lo aggiungeva alla propria collezione di dischi, lo affiancava probabilmente ai CD dei Katatonia o dei Novembre, anche se — come si vedrà — urge una ricatalogazione.
C’è stata l’occasione, rara nella nostra epoca virtuale, di conoscerli personalmente. Tutto questo finirà inevitabilmente per influenzare in positivo questa recensione, alla luce della passione per il loro progetto che hanno saputo trasmettermi. Non me ne vogliano gruppi altrettanto appassionati ai quali non ho potuto stringere la mano.
I Room with a view hanno puntato tutto quello che avevano su “Collecting Shells at Lighthouse Hill”. Il disco è stato registrato col produttore Jens Bogren (Millencolin, Opeth, Katatonia) e promosso massicciamente, attraverso ad esempio una “listening session” o avvalendosi di un biglietto da visita eccellente quale l’artwork curato da Zaelia Bishop, che per l’occasione ha ritrovato i suoi “Bambini Perduti”. La pubblicazione di un’edizione speciale autenticamente ricca di contenuti multimediali (foto-diario di tutte le tappe creative dell’album, testi, commento della band per singola canzone, l’eccezionale video di “Friction”) è un altro stratagemma per catturare l’attenzione, un po’ come lo è la scelta di comparire sul cd-sampler della rivista cartacea Rock Sound.
Il tema di “Collecting…” è il cambiamento, la ristrettezza del proprio “guscio” e la volontà di fabbricarne uno nuovo. La musica aderisce perfettamente a questo tema, senza quasi modificarne i contorni, perché ha in sé qualcosa che riporta all’adolescenza, non a caso l’età delle trasformazioni fisiche e psicologiche. C’è un’energia in certo modo punk, non mitigata né dalla produzione cristallina né da certe soluzioni più ricercate o “pensate”. L’album precedente, “First year departure”, era già una storia di distacco da una precedente condizione, oltre che una mescolanza di generi e sensibilità: la pesantezza del metal dei Katatonia, il tocco scarno dei primi Cure e quello personale di sapore “mitteleuropeo” (ascoltare per capire); la lunghezza e forse la prolissità di alcune parti erano il suo punto debole. “Collecting…” invece sorprende per come ha assimilato certa immediatezza hardcore, perché la freschezza di alcune sue parti così fragorose non va cercata da qualche parte in Svezia, piuttosto oltreoceano in gruppi quali i Thursday: sembra quasi che i Room vogliano operare una sintesi personale di tutti modi di suonare rock melanconico. Ci sono altri due progressi rispetto all’esordio: il miglioramento vocale di Francesco Grasso e l’ingresso in formazione di Gino Palombi (basso) e Piero Arioni (batteria), che ha fatto sì che ora il gruppo possa vantare una sezione ritmica dinamica e irrispettosa degli schemi.
“Collecting…” non ha canzoni deboli o interlocutorie: la potente “Breathe The Water” è messa all’inizio forse proprio per avvisarci che i primi tre pezzi non ci daranno tempo di riprendere fiato. Ciascuno di essi infatti mette in evidenza una delle sfaccettature della band: “Friction” ad esempio sa essere velocissima e “core” come la più accessibile “Till Morning Comes”, mentre “Sometimes Anywhere” ha — come l’inizio di “The farther side of heaven” — delle chiare reminiscenze metalliche, oltre a dei cambi di tempo eccezionali; arriva poi “Penitence” è altrettanto pesante, ma rimane in testa soprattutto perché è introdotta da una funebre marcia un po’ balcanica, un po’ debitrice delle follie dei Beyond Dawn. La strumentale e delicata “Collecting Shells” permette di rilassarsi un attimo e smetterla di ingoiare tutta l’acqua. In quanto a soavità bisogna menzionare anche “Against my will”, canzone che riecheggia un po’ gli Ottanta (il tocco wave delle tastiere è presente in più brani), ma soprattutto lo swing di “Remembering our goodbies”, che sta lì a significare con tanta ironia il non voler essere rinchiusi in degli schemi… o in altri gusci, o quantomeno in un solo guscio.
In chiusura c’è la ghost track “The longest summer”: è stata registrata successivamente alla sessione in studio con Jens Bogren e conferma l’avvenuta metamorfosi del gruppo; soprattutto è solo leggermente inferiore agli altri pezzi, il che rende ottimisti anche per il terzo album.
Con un po’ di fortuna diventeranno grandi.