Per gli En Declin Alice è sempre incatenata nel giardino del suono. La cultura pop rimastica continuamente il passato e negli ultimi tempi sono gli anni Ottanta a venire rivisitati, ma la nuova scoperta di My Kingdom Music guarda ai Novanta e al cosiddetto sound di Seattle. Questo sound è reso parte di una “trama” intessuta di chitarre acustiche e sensibilità progressive, caratteristiche che probabilmente derivano da origini metal e soprattutto da un gruppo sui generis come gli Opeth, ma forse, per quanto riguarda una certa dilatazione dei tempi, anche dai lunghi incubi dei Tool. L’esordio dei cinque romani è così: un unico viaggio intimista e malinconico con scossoni amaranto di rabbia grunge.
Un intro elettronico, poi “Until Bleeding” ci cala subito nel contesto acustico ed emozionale dell’album, ma è la successiva “1647” a colpire nel segno: suono distorto di chitarra simile a quello dei Soundgarden di “Superunknown”, interpretazione superba di Maurizio Tavani di un testo sulle rivolte sociali in Italia Merdionale, osservate da un nobile spagnolo che realizza l’inutilità della sua condizione (a false climbing up) e il disfarsi del proprio mondo. L’idea di richiamare un episodio storico con grande significato sociale a far da sfondo a un dramma individuale e non viceversa, dà subito l’idea di trovarsi di fronte a una band fortemente introspettiva.
Successivamente emerge la necessità degli En Declin di esprimersi sulla lunga distanza, necessità che rende “Trama” qualcosa di unitario e per l’appunto simile a un viaggio senza tappe. Due tracce “My Anger” e “Still Anger”, un unico testo: la prima, ancora acustica, è più rilassata e tranquilla, mentre la seconda — prendendo le mosse dalla precedente — cambia d’umore divenendo più rock e intensa. Stesso discorso vale per “When edge…” e “… Turns blade”, solo che qui è la prima a farsi ricordare per distorsioni e rabbia, mentre la seconda è più triste e lirica; idem per “Lost…” e “… in The Trama”, due pezzi (un pezzo?) sulla difficoltà del singolo di incidere sulla realtà.
Capitolo a parte per “Isquosadmove”, canzone il cui testo è tratto dalla poesia di Quasimodo (si vede che il bassista Carmelo Paci è siciliano) “Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto”, che vede la presenza vocale di Marco Soellner dei Klimt1918, altro gruppo romano di altissimo livello che ha mosso i suoi primi passi grazie alla My Kingdom: siamo di fronte a un pezzo malinconico, ma molto più arioso della media e mai angosciante, anche se l’argomento è sempre quello del primo Quasimodo, ovvero la pena del vivere. Si tratta in ogni caso qualcosa che da solo vale l’acquisto dell’album. Chiude il disco “A Passage”, dove un lavoro diverso sulle percussioni dona al tutto un non so che di ritualistico e sognante.
Riassumendo, siamo di fronte a un gruppo che ha costruito uno stile personale (difficilmente vengono in mente band simili) grazie alla frequentazione di generi diversi dal metal e alla “scelta acustica”. Gli En Declin sono in grado di costruire strutture complesse senza annoiare e risultare freddi, in virtù di un cantante appassionato e sofferente, oltre che di una capacità invidiabile di essere costantemente “emotivi” e di catturare l’attenzione dell’ascoltatore anche grazie all’inserimento di suoni grunge immediati e diretti. Nonostante questi tratti positivi i ragazzi ci chiedono comunque un minimo sforzo iniziale al fine entrare nel loro mondo in penombra (se ne rendono conto anche loro, basta leggere l’intervista nel punto in cui si parla di esibizioni dal vivo), nonché un minimo di apertura mentale. Bisogna dunque mettere via l’ultimo dei Franz Ferdinand, scordarsi del rinnovato amore per i facili Eighties e per il ritornello che si stampa subito nella mente, fare un passetto indietro nel tempo e re-immedesimarsi nel post-adolescente problematico dei Novanta.