Immagine articolo Fucine Mute“The Unsaid Words” è la seconda occasione colta da Fucine Mute per incontrare i Canaan, uno dei gruppi italiani più rispettati dalla critica, principalmente quella che si occupa del loro genere musicale, ma non solo, vedere ad esempio Rock Hard o Blow Up. È sufficiente comunque cercare in rete qualcuno che abbia avuto qualcosa da ridire: compito (giustamente) proibitivo.
I Canaan hanno un’identità unica: fin dall’esordio di dieci anni fa si sono resi fortemente riconoscibili, sviluppando la capacità di esprimere il loro male di vivere attraverso più linguaggi. C’è anzitutto la forma canzone: nello specifico si tratta di brani dall’incedere grave (eredità di un passato doom metal? La sensazione viene comunque amplificata dalla tendenza a utilizzare l’anafora nei testi), addolciti e immalinconiti da suoni liquidi di chitarra e tastiere debitori dei Cure di “Pornography” e “Disintegration”; c’è poi l’ambient/industrial (talvolta più “suonato”, magari con tocchi “etnici”, basta ascoltare qui “Sterile” o “Fragment #2”), del quale i cinque hanno una conoscenza e una padronanza che va ben oltre la ripetizione di stilemi di marca Cold Meat Industry. Negli ultimi due album il gruppo ha inoltre acquisito una dimensione cantautoriale grazie alla collaborazione con Gianni Pedretti dei Colloquio, qui presente solo come cantante, ma nel precedente album anche autore del pezzo “Essere nulla”, che raggiunge il suo apice con “Senza una risposta” (questa vita morde forte alle spalle è un verso che si incide profondamente nella memoria): lingue diverse, italiano e inglese, ma un’impressionante unità, e direi complementarità, di significati.
Il mondo dei Canaan ha il suono del vetro che s’infrange, come nel campionamento di “Sterile” o come nelle parole di “In a never fading illusion”: ancora unità dunque, come dimostra la presentazione di quest’immagine in entrambe le forme consentite a un musicista, ovvero suono e parola, anche se non bisogna scordarsi dell’importanza dell’aspetto visivo, ovvero dell’artwork, come sempre eccellente. Questo è solo uno dei possibili esempi per dimostrare come si possano individuare delle precise idee-guida e una personalità spiccata, dato che induce a descrivere il percorso del gruppo — lungo cinque album — utilizzando termini come sviluppo piuttosto che evoluzione, progressione piuttosto che cambiamento. Nel caso di “The Unsaid Words” il passo avanti è stato fatto perché la band si è presa tempo e ha scelto l’autarchia allestendo uno studio casalingo. Anche il lavoro con Alessio Camagni in fase di missaggio ha dato i suoi frutti.
In questo disco, ad avviso di chi scrive, si distinguono “This world of mine” per il suono gonfio e debordante delle tastiere, “The possible nowheres”, un po’ perché sorprende il gioco più dinamico di basso e batteria, un po’ perché c’è un efficace crescendo emozionale. Bisogna menzionare anche la title-track, perché diviene per forza di cose manifesto dell’album, poi perché risulta più facilmente assimilabile delle altre: in ogni caso uno dei possibili “classici” dei Canaan. “Never again” richiede invece qualche ascolto in più per essere apprezzata, dopo però emerge un lavoro sui suoni di altissimo livello. Per quanto riguarda le parti industrial/ambient, si spazia da atmosfere sacrali alle succitate melodie etniche, passando per il noise puro.

Consigliatissimi, come sempre.