Immagine articolo Fucine MutePassaporto apre la raccolta Intrusioni, secondo libro di racconti di Corrado Premuda, pubblicato nel 2004 da Franco Puzzo Editore, Trieste.

“Qui in America tutto è very big. Lavoro da mattina a sera, lavoro anche domenica quando il capo vuole. Ti penso sempre. Con prossimo salary torno a casa e ti porto qui in America con me”.
Le ombre si allungavano al caldo sole autunnale e i palazzi che si specchiavano nell’acqua delle rive erano accesi di una luminosità stanca e appiccicosa. Nelle ore più avanzate del pomeriggio la gente, a piccoli gruppi, passeggiava vicino al mare, alcuni fermandosi nei ristori della stazione marittima, altri spingendosi fino al porto.
Gigliola invece si portava diretta sul molo più lungo. Scivolava veloce tra i passanti, nervosa e preoccupata. Attraversava la lunghezza del braccio di terra con andatura decisa, sollevandosi leggermente il vestito con una mano per marciare senza intralci. La sua meta era sempre l’estremità cittadina che si protendeva al mare, la più prossima all’orizzonte invisibile.
Fermatasi davanti agli scalini che sparivano nell’acqua, Gigliola strinse gli occhi colpiti dal bagliore del tramonto e cercò in lontananza una nave. Con la mano destra si premette il foulard sul collo e sospirò profondamente. Un altro giorno di attesa si stava consumando di fronte all’infinita spianata del mare, calmo e indifferente, insieme di mille correnti, una delle quali trasportava Arturo sicuramente verso di lei.
La lontananza stava trasformando Gigliola. Usciva di casa solo per recarsi al porto a raccogliere notizie. Lettere non ne riceveva più da un bel pezzo e continuava a rileggere quello che le era stato inviato. Oramai il suo stato di afflizione era tale che si abbandonava di frequente ad atteggiamenti morbosi. Si infilava ad esempio i calzettoni neri di Arturo, che le arrivavano fin oltre il ginocchio, e si accoccolava nel letto avviluppandosi su se stessa. E si pentiva di aver lavato quelle calze che avevano perso l’odore di lui.
La giacca però non l’aveva lavata e quando la indossava e chiudeva gli occhi poteva arrivare ad immaginare che Arturo l’abbracciasse, nel suo modo brusco e passionale. L’odore e il calore erano gli stessi, la testa le girava e il cuore tornava a cavalcare sul sentiero dell’illusione che la portava al limite della pazzia e alla sopravvivenza.
Il suo mondo finì per l’ennesima volta. Non erano previsti arrivi navali quella sera e le notizie sul rientro degli emigranti erano contraddittorie. Come avrebbe fatto a tornare ancora a casa da sola? Era troppo pesante affrontare gli sguardi e i mormorii di compassione della gente. Una donna sola era irrimediabilmente commiserata e considerata un fenomeno sociale, esclusa dalla vita attiva, votata alla frustrazione e alle privazioni.
Avesse avuto almeno un figlio da accudire. Un bambino, sì: qualcosa di tangibile che Arturo avrebbe potuto imprimere del suo marchio e delle sue fattezze e su cui Gigliola avrebbe riversato il suo amore, fatto di disperazione e solitudine, rinvenendo in lui il sangue e le espressioni dell’uomo lontano.
L’idea di un figlio l’accarezzò ancora più da vicino quando il sole scomparve totalmente, lasciando intorno freddo e silenzio. Immaginò che Arturo sarebbe stato orgoglioso del bambino e forse sarebbe rientrato stabilmente a casa sapendo che c’era una creatura da allevare. Sorrise nel buio.
Poi si toccò la pancia, vuota e impreparata, e un’incontrollabile angoscia l’avvolse tutta. Non c’erano prospettive, solo fantasie inutili e di sicuro le restava l’attesa, lunga o breve non poteva saperlo. Ebbe un brivido lungo la schiena.
“Spero tu ricevi money. Aspetta e pazienza. I love you, amore.”

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Come ogni giorno, finita la scuola, Michele corre con la sua cartella sulle spalle fino al molo principale. E non si ferma, se non lo percorre tutto.
È una calda giornata di primavera, il sole splende sul mare e c’è una brezza profumata di allegria. Anche se piove il ragazzino si reca sul molo e osserva con attenzione le navi che attraccano.
Con irruenza si siede su una bitta, incrocia le braccia e fa il broncio se non avvista in lontananza. L’attesa lo stanca e lo annoia e così si appisola disteso sulla panchina, con la testa appoggiata alla cartella.
Michele aspetta qualcosa d’importante dal mare: l’arrivo di «sua mamma». Lei se n’è andata anni fa, partita per un lungo viaggio via mare. Così gli hanno detto. Perché sua mamma lo ha abbandonato? Perché ha lasciato il suo papà da solo, ad accudire lui e il suo fratellino? E suo papà non vuole che lui vada al porto dopo le lezioni, perché questo non servirà ad accelerare il ritorno. Forse il suo papà sa qualcosa che ancora non gli ha detto.
Non vuole piangere. Calcia una bottiglia e il fragore che produce nel mare calmo lo eccita, gli riporta alla memoria i ricordi chiari di sua madre, il suo corpo trasformato con la nascita del fratello, un terzo braccio che le cresce nel petto, più corto, affascinante, da cui si nutre suo fratello, e vi si attacca, e lo morde, e trova pace dopo tanto urlare.
Anche Michele vuole il suo conforto. Vuole di nuovo il trastullo della sua mamma magica, capace di trasformazioni e di giochi. Nessuno riesce più a divertirlo. Le sensazioni rimangono ma il volto di sua mamma non lo ricorda più.
Si sovrappongono le immagini e i volti delle mamme dei suoi amici e dei compagni di scuola. Ma sua mamma è diversa, non è come tutte le altre, non può essere scambiata: è straordinaria.
Il sole è caldo e Michele comincia ad avvertire la fame. A casa lo aspetta il pranzo. Raccoglie la cartella e ritorna veloce verso la riva. L’idea di una madre fuori dal comune però non lo abbandona. Indugia con lo sguardo sulle persone che incontra.
Incrocia donne e mamme con figli. Imitazioni assurde, affini all’originale, ma poco convincenti. Gli passano vicino anche uomini, più simili a suo papà ma già disposti a un processo di immedesimazione con la sua visione ideale.
E allora perché no? Magari sua mamma è un uomo, un essere particolare e unico, tanto speciale da non avere uguali tra le persone che vede. È facile convincersene.
Comincia a correre verso casa, felice, spinto dalle conclusioni che si è dato e dal pensiero che domani tornerà al porto per scrutare la linea del mare. Domani da una nave scenderà sua mamma, tornata per stare con lui e con la sua famiglia. La sua meravigliosa mamma maschio.

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Certamente sarà il vizio a portare Brando fino al molo. Si calerà sinuoso nel cuore del porto, nel lembo ultimo di terraferma, anticamera di passaggi e provvisorietà. Con un sorriso beffardo e le mani in tasca trascinerà i suoi piedi per mettersi in posa davanti al mare.
Terrà il mento rialzato e i suoi capelli verranno attraversati dalla brezza notturna e la sua figura si staglierà fiera tra le coppiette in transito e le ombre solitarie.
Il suo giardino di conquista sarà il lungo passeggio illuminato dai lampioni e circondato dal mare: perfetto immaginario stereotipato. Ma cosa può essere il porto se non uno scenario da leggenda?
Come una figura d’altri tempi, effeminato nelle pose e negli eccitamenti, il giovane cercherà le stelle sulla sua testa e un segnale dalle profondità del mare. Dalla banchina grigia attenderà il classico marinaio per un incontro casuale e intenso, ingannando l’ansia da depravazione cantando a mezza voce.
E a un tratto i passanti avventori del molo diventeranno ballerini che fluttuano sfiorando il suolo, l’odore di salsedine sarà l’aroma più afrodisiaco mai esistito, il cielo e il mare sposandosi all’orizzonte partoriranno una nave trionfante e imponente. Sarà il contorno per l’idillio che si compirà nel momento in cui il bel marinaio, dalla divisa bianca e dalla pelle dorata dal sole, appena sceso sul molo incontrerà lo sguardo di Brando.
Primo incontro, curiosità, desiderio di contatto: inevitabilmente reciteranno entrambi il ruolo che l’occasione suggerisce e pretende. Il ragazzino che aspetta il suo uomo ideale e il marinaio bramoso di mietere l’ennesima vittima, nel luogo transitorio della gente di mare.
A Brando toccherà il suo turno, assumerà le pose di rito: seduto sulla panchina, assorto nella contemplazione dell’oscurità marina, impaziente e teso. Pronto a un ritorno, a un arrivo, a un appuntamento, a diventare un prototipo.
I suoi lineamenti saranno quelli di chiunque scruti per avvistare la sua speranza che si avvicina veleggiando. La notte non determinerà una pausa nella concatenazione degli episodi che avranno luogo tra la riva e i cantieri, tra la stazione marittima e i moli. Con moto ondoso e rapporti altalenanti il flusso scorrerà nelle vene e nei respiri, s’insinuerà nelle fessure pietrose del suolo dove il cemento non si è fissato, nel tratto di strada che si discosta dalla città e si protende fiducioso verso l’acqua nervosa.

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