Giuseppe Spagnulo, Colonne, 1999, acciaio, Collezione Privata  E se venisse un colpo di vento? non è solo il titolo dell’esposizione, ma la programmatica dichiarazione artistica dello scultore pugliese Giuseppe Spagnolo, presente alla Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia fino al 22 maggio, a cura di Luca Massimo Barbero.
Spagnulo si chiede e ci chiede cosa succederebbe alle sue sculture con l’arrivo improvviso e naturale di un colpo di vento: fortunatamente non ci è dato saperlo, perché il flusso d’aria si ferma in potenza un attimo prima di sfiorarle, senza accarezzarle, senza abbatterle.
Infatti, il “vero” colpo di vento è l’idea di porsi questa domanda, in cui risiede forse il più profondo significato e estetico e filosofico dell’opera e, al tempo stesso, l’esplicitarsi della risposta: l’incredibile gioco tra la pesantezza proverbiale dell’acciaio come medium scultoreo, e la levità dell’opera compiuta; la staticità rassicurante del monolito insieme ad una apparente carenza statica; le forme minime, puramente astratte, con la “rozzezza” ruvida e come “primitiva” dell’acciaio grezzo; la solidità della materia appena sbozzata e lo spazio che la circoscrive e che viene compreso come parte della scultura.

Colonne, 1999, opera che dal 2004 arricchisce il Giardino delle Sculture Kasher al Guggenheim veneziano, illustra al meglio questi principi nel desiderio di un abbraccio, di un tocco affettuoso che non avviene, tra due torri di venti tonnellate d’acciaio composte di dieci blocchi ciascuna; la forte tensione ideale che si prova nel vedere non realizzata un’unione che si sente esistere solo “sulla punta della lingua”, è data semplicemente dal lieve flettersi reciproco dei due corpi, dall’accenno di un sussurro immateriale ma dalla materia uscito.
Il peso allora si subordina all’artistica capacità di rendere leggere la materia attraverso un concetto di leggerezza, di effimero irrisolto, in cui solo quel soffio di vento, pronto ma inesistente, è invocato come soluzione di uno stato di tensione poetica, infine irrisolvibile.

Senza titolo, del 2002, è una terracotta alta circa 70 cm., evocativa di una croce greca o di un busto umano dalle profonde ferite; proprio questi squarci inflitti quando la terra era ancora morbida, penetrabile, sensuale, ci danno tutta la misura di cosa e quanto sia la materia, degli atti che intervengono per plasmarla di forma e significato, del suo tramutarsi da uno stato facilmente deformabile, ad uno ormai “oggettivo”, cioè solido e finito, ma che chiarisce cos’era quella terra prima della cottura.
Gli oggetti riportano sempre all’intuizione vitale e tragica della brutale forza che li ha originati, della pressione ancora pulsante che li caratterizza, apparendo come improvvisamente spezzati in modo casuale da un’energia che si palesa al di sopra della processualità tecnica.

La terza scultura in mostra è Libro, 2004, parte di una serie iniziata nel Duemila; massicce pagine d’acciaio, antiche tavole di scriba, leggermente sporgenti da un guscio per mostrarsi come presenza di una cultura vastissima ma non consultabile tanto è il peso immane che porta, scritta non di labili parole ma da un sapere ben più antico e ben più futuro che è quello della materia: “Ho sempre avuto come limite, ma anche come pregio quello di trovare nella materia lo scontro con l’idea”.
La particolarità dell’esposizione è la presenza di opere non “su carta”, bensì “di carta” bianca, in unione la nero della polvere vulcanica.

Giuseppe Spagnulo, Croce, 2002, Carbone, ossido di ferro e sabbia vulcanica su cartaCroce, 2002, carte e polvere vulcanica: la carta non brucia ma sostiene il residuo del fuoco che è colore; non è distruzione tra materie contrastanti, ma nuova combinazione, nuova conciliazione, nei propri ruoli di bianco e di nero.
Questi in realtà non sono più “colori” ma materie, il bianco è ripiegamento tridimensionale di strati di carta grezza, il nero non è pigmento ma è esattamente “fuoco spento”, eppure mantengono nella forza della dicromia, caratteri propriamente pittorici di luce e colore, relazioni comunicative svelate dal mestiere dell’artista.
Il risultato ultimo è un lavoro che porta insieme pittura e scultura, nella condivisone dei rapporti dicotomici di forza-fragilità, pieno-vuoto: la scultura per il contrasto tra il peso del materiale e la fragilità statica, la carta per la sua fragilità rispetto alla forza distruttrice del fuoco.
Spagnulo si dedica alle forme irregolari o se geometriche comunque spezzate, rotte, in materiali grezzi che trattengono la luce, Brancusi invece, a porsi in un dialogo tra opposti, predilige forme tondeggianti e levigate, organiche, in metallo o gesso di finissima lavorazione, che riflettono la luce come punti luminosi.

La grande scultura resta presente alla Fondazione Guggenheim con la retrospettiva L’opera al bianco, dedicata ad uno dei più importanti scultori del secolo scorso, il rumeno Costantin Brancusi, (1876-1956), a cura di Paola Mola e Marielle Tabart.

Non la presenza tangibile dei suoi più famosi lavori, ma i loro ritratti attraverso l’occhio fotografico dello stesso Brancusi, poetico e analitico insieme nel cogliere le proprie sculture come modelli in posa nell’atelier, donando alle forme lucenti o ruvide, tonde o spigolose, nuove possibilità luministiche e interpretative, che superano la scultura per essere pienamente Fotografia.
Brancusi ha utilizzato molto il medium fotografico anche al di fuori delle necessità del mestiere, amando mantenere il ricordo delle proprie opere come di amici e persone amate, tanto da divenire negli ultimi decenni una fonte espressiva parallela alla scultura.

L’opera al bianco è un chiaro richiamo alla luce, ai suoi poteri di avvolgere la forma scolpita determinandola e allo stesso modo di costruire il tracciato di un oculo di realtà nella pellicola ai sali d’argento; i bianchi della pietra e del gesso sono dominanti, materiali che rilasciano una coltre avvolgente e nivea rendendo memorabile l’atmosfera “argentea” del suo atelier.
Nelle varie sale incontriamo i ritratti dei capolavori inconfondibili di Brancusi, da Colonne, a L’uccello e Principessa X, arrivando nell’ultima stanza a presentare nature morte sintetiche e quasi astratte, un autoritratto e fotogrammi di danza; tutto è un invito alla meditazione sulle forme purissime e artefatte dello scultore, un invito al silenzio eloquente del ricordo interiore.