Christian Sinicco (CS): Fucine Mute intervista Josip Osti. Questo viaggio è accompagnato da Sinan Gudzevic, questa volta nostro traduttore-poeta. Josip Osti, poeta, narratore, critico e saggista, è nato nel 1945 a Sarajevo. Qual è la situazione attuale in Bosnia? In particolare qual è lo sfondo sociale a dieci anni dalla guerra a Sarajevo?
Josip Osti (JO): Nessuna delle guerre jugoslave è ancora finita. Le conseguenze sono molteplici e la situazione in Bosnia è grave. Lo stato che ha come nome Bosnia-Herzegovina è una contraddizione in termini: è sì dal punto di vista formale uno stato integro, ma è, nella realtà, diviso. Lo stato delle cose, in senso sociale, è gravissimo: la maggioranza della popolazione giovane cerca di lasciare il paese appena finita la scuola, poiché una vita normale non è possibile lì: deve cercare un altro luogo dove costruirsela, quindi emigrare.
CS: Josip Osti ha pubblicato recentemente un libro con la Multimedia Edizioni di Salerno, il cui titolo è L’albero che cammina. La traduzione è di Jolka Milic. Nelle tue poesie c’è una precisa definizione dell’immagine, della scena, a partire da elementi, eventi reali e intime sensazioni. Spesso la tua poesia scaturisce da questi temi, concettualizza i sentimenti o i sentimenti si fanno attraverso una visione drammatica. Quanto peso porta con sé la realtà nelle visioni che descrivi?
JO: Potrei definire me stesso come uno che appartiene al realismo magico. Scrivo le mie poesie partendo dalle esperienze e sensazioni, e una delle prime e delle più importanti è quella del linguaggio, della mia lingua. Cerco di costruire le esperienze nella mia lingua ed espressività. Una vera ed anche una buona poesia, dovrebbe essere un’arte a doppio taglio, a doppio fondo: al tempo stesso reale e surreale. Quindi supera questa realtà, ma allo stesso tempo rimane nella realtà.
CS: Personalmente sono rimasto molto colpito da una poesia per l’approfondimento dell’immagine, per la comunicatività e la teatralità del tuo fare poesia, spesso drammatica.
JO: Prima di leggerla devo dire che questa poesia l’ho scritta trenta anni fa, forse anche di più. Questa sua attualità supera il contesto e la sensibilità in cui l’ho scritta:
Il patibolo
per me è facile
con l’eterno sorriso poso la testa sul ceppo
non so se altrove mi aspetti qualcosa di più duro della vita
il boia invece deve sollevare su di me la pesante mannaia
e guardarmi negli occhi
chissà perché indugia
cosa mai avrà visto nel mio occhio — nello specchio verde
vede:
anche su di lui un boia chino solleva la mannaia
e sopra il boia un boia
e sopra il boia un boia
e sopra il boia un boia…
e così all’infinito
credetemi è facile per me
con l’eterno sorriso poso il capo sul ceppo
ignoro se altrove mi aspetti qualcosa di più duro della vita
ma il boia deve sollevare su di me la pesante mannaia
e guardarmi negli occhi
e guardarmi negli occhi
CS: Quale condanna pende sull’uomo e quale utopia pensi possa salvarlo?
JO: Se lo sapessi non scriverei poesie. La poesia che ho appena letto era però una specie di “carta di protezione”. La situazione tra aggressori e vittime mi ha convinto di essere felice, di essere tra le vittime e non dall’altra parte.
CS: L’amore è in mezzo al mondo? Ovunque?
JO: Tutto quello che faccio lo faccio per amore e l’amore è la mia risposta a tutto questo. L’amore mi ha fatto poeta, è un titolo di una delle mie poesie.