Immagine articolo Fucine MuteGiorgia Gelsi (GG): Siamo sul palcoscenico de La Contrada, Teatro Cristallo di Trieste, che in questi giorni ospita l’ultimo spettacolo della stagione, “Cosa dirà la gente?”, con alcuni dei protagonisti di un cast a dir la verità affollatissimo per questa occasione: Maria Grazia Plos, Mariella Terragni e Adriano Girali, protagonisti di questo spettacolo che vuole essere anche un omaggio a Trieste e a questo teatro. Spieghiamo innanzitutto di cosa si tratta; uno spettacolo tra il varietà e il musical, ma non solo…

Maria Grazia Plos (MP): È uno spettacolo per noi che l’abbiamo fatto, per me, per Adriano, per Ariella, per Orazio soprattutto, insomma per noi vecchi… uno spettacolo che ci muove molti ricordi, perché l’allestimento che ha fatto magnificamente — come sempre — Francesco Macedonio, ha ripreso i momenti più significativi per la storia di questa compagnia, dei vecchi spettacoli, quindi i numeri più divertenti, i numeri che hanno raccontato di più la storia della nostra compagnia. Ma non si tratta solo dei momenti più divertenti, per esempio la caduta dell’Impero Austro Ungarico è un momento di altissima poesia di Carpinteri e Faraguna, che magari non fa ridere ma certo fa pensare a come le cose finiscono in un batter d’occhio, anche le cose più importanti, più grandi… Appoggiando semplicemente un cappello su una sedia, viene simboleggiata la fine di un impero. È uno spettacolo che secondo me, e anche da quello che vediamo dalle reazioni del pubblico, ha colpito nel segno. Francesco Macedonio è riuscito ancora una volta a raccontare e a farci credere nel suo progetto che è stato vincente come sempre. E il pubblico ce lo sta dimostrando.

GG: È uno spettacolo che risulta molto vivace e attuale, convincente e molto moderno, non si sentono gli anni di queste Maldobrie.

MP: I primi tempi pensavo: “Chissà se la gente ride ora come ridevamo una volta, sempre sulle stesse cose”. Effettivamente c’è un modo di ridere che è legato veramente alle radici, come il teatro greco, è una cosa che abbiamo dentro, con quelle battute e quei tempi. Non c’è questione di antichità o di modernità, è così e basta, questo tipo di comicità sta dentro di noi.

Mariella Terragni (MT): Diciamo che è una triestinità che io ricordo in mia nonna, nelle sue amiche e che io ho cercato di riproporre. È la prima volta tra l’altro che recito con la Contrada anche se conosco i miei colleghi da anni, ed è la prima volta che lavoro con Macedonio. È stata per me un’esperienza emozionante ed entusiasmante, il pubblico risponde bene, lo spettacolo sta prendendo corpo sempre di più, siamo calati nei personaggi. Io mi ritrovo molto in queste donne che incontro sull’autobus, che vedo “al bagno” (ovvero “al mare”, per i triestini, ndr); è interessante perché così c’è un collegamento con la platea molto forte. Ma è molto forte anche tra di noi, sia per quanto riguarda i veterani che i giovanissimi.

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GG: Adriano, prima di darti la parola ricordo che tu sei stato uno dei protagonisti anche nelle stagioni passate di molte Maldobrie.

Adriano Giraldi (AD): Qui c’è un’integrazione di Maldobrie — questi racconti celeberrimi di Carpinteri e Faraguna portati in teatro — e dei numeri di varietà e avanspettacolo. Le Maldobrie hanno secondo me dei meccanismi comici e di linguaggio che sono assolutamente geniali, hanno dei tempi comici e dei ritmi che sono perfetti. A volte sono difficili da “mettere in bocca”, come si dice nel gergo del mestiere, ma se rispetti e segui i tempi, ti regalano grandi soddisfazioni e una grande risposta dal pubblico. Perché nelle Maldobrie c’è dentro il senso del comico, ed è una comicità che funziona ancora presso il pubblico di tutte le età. C’è stato un momento anche di panico perché non siamo amplificati e avevamo paura che non si sentisse. Ma è giustissima secondo me la scelta di non amplificarci perché risponde a quella scelta di spettacolo dal vivo, dato al pubblico con quella immediatezza che dava il tipo di teatro di varietà; è giusto secondo me riproporla così, senza quella confezione e quella perfezione che ha qualche volta il musical.

GG: Da un punto di vista formale, parliamo proprio del linguaggio di Carpinteri e Faraguna, che ha avuto grandissimo successo: per anni e anni la rubrica “Cosa dirà la gente?” è apparsa sulle pagine de “Il Piccolo”, quotidiano di Trieste. Spesse volte il teatro in dialetto — che poi bisognerebbe distinguere in quale accezione viene considerato “dialetto”- è stato considerato teatro di serie B. Allora, allargando il discorso, volevo sapere la vostra opinione su questo.

MP: Secondo me il teatro di serie B è solo quello mal fatto. Puoi fare teatro di figura, teatro-danza, tutto quello che vuoi… Se è fatto bene è di serie A, e io credo che questo spettacolo lo sia. Perché allora tutte le compagnie di teatro partenopeo, farebbero un teatro di serie B? Io sono friulana, non ho mai considerato di partecipare a uno spettacolo di serie B se fatto in friulano, era uno spettacolo ben fatto e questo bastava.

MT: Il dialetto concede la possibilità si essere molto veri, secondo me, molto simili alla gente che ci viene a vedere e ci permette di trovare delle tonalità nostre.

AG: Dal momento che una compagnia come la Contrada si impegna a mettere in scena dei testi che hanno una caratura importante come quelli di Carpinteri e Faraguna o quelli di Kezich, come di Macedonio, Nini Perno, si comincia anche a creare una tradizione teatrale che si intensifica, che si stratifica nel tempo e acquisisce importanza, quasi una tradizione, e dona una dignità alla lingua triestina come lingua teatrale. Credo che questo sia fondamentale per creare una continuità, per donare un diritto pari a quello del teatro partenopeo. Il linguaggio è determinato in qualche modo da come lo usi, da chi lo usa e da come lo mette in scena. Se poi è una scusa per far ridere o per divertirsi tra di noi, non va bene, ma dal momento che comincia ad avere delle radici così solide non si può più parlare di teatro minore, di teatro dialettale, ma è teatro “in lingua triestina”.

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GG: Vorrei sottolineare che a questo spettacolo prendono parte anche degli allievi dell’Accademia “Città di Trieste”. Volevo sapere com’è il rapporto sul palcoscenico tra quelli che hai chiamato prima “veterani” e le “nuove leve”? C’è voglia di trasmettere? Com’è la nuova generazione di attori?

MP: Per quanto mi riguarda, una volta sul palcoscenico siamo tutti colleghi.
Per me siamo tutti uguali, dal più anziano — che non sono io! — al più giovane, esigo lo stesso impegno. Sono una rompiscatole in questo, non ammetto l’errore “perché si è giovani”: se sei sul palcoscenico non devi commettere gli errori stupidi tipo “fare rumore dietro alle quinte”, siamo tutti uguali in tutti i sensi. Il teatro è fatto di tanti elementi, tecnici, attori, comparse: ci deve essere rispetto per il lavoro di tutti. Con i ragazzi si è instaurato un bellissimo rapporto di lavoro, gioco, anche scherzo. Sono molto seri, sono molto in gamba e sul palcoscenico danno ogni sera il massimo, poi si giudicano, si criticano, si bestemmiano se non hanno detto o fatto la cosa come dovevano. Sono molto carini, sembrano innamorati di questo mestiere e credo che questo sia l’unico modo per farlo, alla fine.

MT: Io osservavo loro la sera della prima e i giorni delle prove: sono disciplinati, motivati, davvero delle persone gentili, collaborative. La sera della prima mi hanno emozionata perché mi hanno ricordato delle emozioni che io provavo le prime volte. Erano tesi, presi da quello che stava per succedere. Si è visto anche in scena perché direi che hanno dato un’ottima prova di serietà e di amore per questo mestiere. Auguro anzi loro buona fortuna.

AG: Sono molto bravi davanti e dietro. Davanti perché fanno delle cose difficili, perché ballano, saltano, cantano, recitano, e sono bravi dietro perché questa bella scenografia di Sergio D’Osmo lascia poco spazio dietro le quinte per trenta persone. Bisogna muoversi con grande disciplina e senso di responsabilità per non disturbare chi sta recitando. In questo sono anche bravissimi, perché dietro ci vorrebbe un’altra regia, che in qualche modo è stata anche fatta.