Luciano Dobrilovic è un poeta che insegue il paradosso tra realtà e ideologia personalissima dell’arte attraverso la conoscenza della crisi della propria identità. Per far ciò ribalta il concetto di una natura maligna — dove l’uomo abbisogna di farsi in qualche modo “sociale” — in una natura, pure sociale, che nel male e nel bene nutre la risposta infinita ai nostri interrogativi.
La raccolta inedita “I sentieri della terra” si snoda in cinque sezioni (“Anomiche e poesie del limbo”, “Il baratro”, “Distanze e miraggi”, “I sentieri della terra” e “Resurrezione”) per un groviglio totale di centoquarantacinque poesie.
Attraverso queste sezioni la formatività (1) di Dobrilovic si modula alla ricerca di un senso ultimo fino all’accettazione della morte, aspetto che l’autore definisce nella poesia dal titolo “Verità del punto” (CXLII): “[…] Ma il punto accade, anche/ d’essere, e ciò che sono/ — che io sappia, e non lo/ sappia… — ciò che è/ e riflette e partecipa nel/ Punto.”
Il “punto” non è solo la minima particella di senso registrabile, l’ancora udibile all’approssimarsi dell’indicibile, ma anche la nostra illusione quotidiana di questo, cioè quel nascondere a noi stessi la verità che si riflette comunque, e comunque partecipa a noi, per tutto il corso della vita. La parabola dell’autore ricorda il mito platonico della caverna, ma il mondo delle idee, l’Iperuranio, e l’universo fenomenico, ombra del primo, piovono entrambi nel “punto”, dialogando e generando sempre la nostra “creta”. Quindi il nostro illudere e in generale il processo artistico, anche copie imperfette o imitazioni, lo stesso partecipano alla realtà e non diviene necessario inseguire un “Paradiso” o una “Beatrice” sulla terra. La necessità sta semmai nello stare nei pressi del “punto fermo ovunque”.
La “donna eterea” si fa dunque “ideale angelo d’idioti”, ma le illusioni che l’uomo tanto ha cercato nascondevano comunque il “punto” e la sua verità, e l’autore lo annota nella poesia “Versi vulvei” (C): “[…] Poiché l’occhio vede,/ non nell’occhio il mondo è visto.” La donna, la ricerca della bellezza e del suo disvelamento, si fondono nell’esperienza e, sebbene la morte sia in agguato, questo esperire “si fa strada in un mondo” fin nella briciola “più piccola/ minima perduta”.
Infatti, prendendo spunto e differenziandosi da Dante, questa strada si frantuma tra più di centoquaranta testi che appaiono “attimi improvvisi di poesia”. Costringendo il lettore ad approfondirsi via via il “sentiero”, l’autore annota ciò che si fa o si sta facendo in una continuità temporale a corrente alternata, simile a tanti frammenti di film nati da crisi che tendono a ridiscutere il “concetto di sé” e il pensiero di noi stessi — ne è un esempio una poesia tratta dalla quarta sezione “I sentieri della terra”, che dà anche il titolo al libro:
CV
All’Adoratore…
No, nulla di ciò niente
sono. Nemmeno
un poeta.
Solo un Frammento, ed incapace,
di dirne la gioia
immensa.
…il poeta.
Tra i dubbi, le incertezze e i contrasti, Dobrilovic porta il dialogismo che gli è interno a superare le difficoltà di descrizione di ciò che sente come “informe” ed indicibile facendo un passo in più, scavando più a fondo nel non verbalizzato, nell’inconscio tra gli archetipi culturali, per poi, nel tentativo comunicativo, risultare “rivelatore”: grazie a questo atteggiamento l’autore comprende e disvela anche la “finzione” dello scrivere, ed è per questa ragione che gli accadimenti esplicitati nelle poesie sono destinati ad essere continuamente sopravanzati, annullando la propria tensione filosofica in un commosso e sentito concetto o attraverso un’immagine “sublime”, come un elastico tirato che ritorna alla centralità dopo la deformazione prodotta da eventi che l’uomo non riesce a controllare, ma in cui può rimanere per un po’, cullarsi dolcemente.
La sistemazione dei testi nelle diverse sezioni, oltre a rispondere all’ideologia dell’opera, è contemporanea più che successiva alla composizione delle singole poesie, cioè ci possono essere stati degli aggiustamenti o spostamenti, ma nel complesso si ha la sensazione che, più che categorie, le sezioni siano “stanze dello spirito” effettivamente vissute dal poeta come periodi di vita, con precise ed autentiche intenzioni formative, in successione. Si può parlare di un allineamento tra estetica e vita stessa in un uomo che si è dato completamente a questa esperienza.
Altra matrice de “I sentieri della terra” è la vicinanza di Dobrilovic alla cultura balcanica, testimoniata dalla descrizione di ambienti naturali tipici di queste terre, dai riferimenti intellettuali e dalle dediche a poeti, prosatori e registi cinematografici, come Nikola op, Ivo Andrić o Emir Kusturica (Dobrilovic ha collaborato per anni a “La Battana”, periodico culturale degli italiani in Croazia e, nonostante sia nato a Trieste, ha origini istriane).
La lingua che il poeta usa — è una relazione che non sfugge — è quella mediata dalle letture di Saba e di Quasimodo, del Montale di “Ossi di Seppia” e di “La bufera e l’altro”, del Zanzotto prima de “La Beltà”, di Vittorio Sereni: una commistione tra temi concettuali, naturali, di storia contemporanea e fatti, per mezzo di visioni, intimi raccoglimenti.
Inoltre nel costante dialogo interiore la conoscenza si fa ricerca di una possibilità di salvezza — a questo proposito, se Luciano Dobrilovic fosse vissuto negli anni ’60 del secolo scorso, Raboni avrebbe potuto parlare di una provocazione a tutto campo sulle tenui rive di un lago o davanti al vino trascolorante nei bicchieri di un’osteria con pergolato (“Poesia degli anni sessanta” di Giovanni Raboni, pubblicato da Editori Riuniti; il passo e i successivi riferimenti in corsivo sono tratti dal capitolo “La provocazione centrista”, analisi dell’operazione antologica curata da A. Giuliani ne “I Novissimi, poesie per gli anni sessanta”) per sottolineare la strana appartenenza di questo autore alla categoria di chi vorrebbe che la poesia fosse intesa come strumento di conoscenza integrale della realtà e la realtà intesa come estensione inesauribile del campo della conoscenza — quindi di sinistra — e alla categoria di chi vorrebbe contrapporre la poesia come salvezza particolare alla realtà come principio generale di perdizione — quindi di destra.
Luciano Dobrilovic con tutta probabilità e fumando un sigaro, evidenziando così una certa compresenza dei propri passi sulla terra e nei cieli, direbbe ironicamente e saggiamente:
In realtà non so nulla e canto
lo splendore accecante
del mondo.
(CXXI, dalla sezione “I sentieri della terra”).
E, alla ricerca di una funzione in questa società, simulando l’essere umano o forse l’eroe che resiste fino all’ultimo, il poeta continuerebbe dicendo:
Se sono non ho
funzione. Tutto
funziona e io
Sono.
(CXXXI, dalla sezione “Resurrezione”).
Ma dato certo nella poesia dell’autore è la violenza che reca in sé la società, violenza affrontata con il distacco dell’amore grande, come nel Mario Luzi di “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”. Inoltre nelle poesie della raccolta di Dobrilovic viene analizzato il tema della vittima e del carnefice: nelle prime sezioni questo tema appare come un riflesso del rapporto del poeta con la figura paterna, un Abramo che in nome di principi insensati ucciderebbe il figlio Isacco, come in questa poesia tratta dalla sezione “Il Baratro”:
XXXII
Padre mio, dicevi che i neonati
piangono per vizio, e così
mi picchiavi. Un pellegrino sordo
e cieco vedendoti non mancò
di dirti indemoniato, passando avanti poi
a cercare il suo dio; e i dotti
troverebbero preziose parole
a nominare quanto costa sapere.
Né io mancai d’insultarti: poiché è
facile sputare sulla bava dei vermi
per noi che naso fine abbiamo, e tanto
si parla di stragi, finché il fronte è lontano.
Successivamente, durante la lettura dell’opera, la presenza di carnefici e di vittime non è altro che l’abbraccio delle guerre balcaniche, che tanto hanno segnato nella sensibilità del poeta triestino.
Tuttavia i drammi e le tragedie di questi popoli non hanno scavato nel poeta trincee che non possano essere violate:
Dinanzi a me sterminate
masse s’accoppano e serenamente
vedo solo il sangue rosso
scorrere.
E avevo creduto fosse buio.
In realtà il buio non è
assenza di luce ma luce
dalla scorza più dura.
E so che non esistono scorze
né tempi né spazi lontani
né cortecce tra te e me
se è vero che siamo tutto
ama tutto è:
Amo.
(CXXVII, dalla sezione “Resurrezione”).
L’amore incontenibile dona il perdono anche ai carnefici, il pugnale inabissa in noi omicidi e santi e, come dice Sereni, i morti non è quel che di giorno in giorno va sprecato, ma quelle toppe d’inesistenza, calce o cenere pronte a farsi movimento e luce.
La lotta finisce, risorge la vita; ed anche nella luce accecante, dice Dobrilovic, non siamo perduti né possiamo perderci: Siamo.
Note
(1) Prendendo spunto da “Estetica. Teoria della formatività” (Milano, Bompiani, 2002) di Luigi Pareyson, l’autore intende il termine “formatività” come l’aspetto dinamico e processuale del fare artistico coniugato all’esperienza umana nei diversi suoi aspetti: “… qui si intende la forma come organismo vivente di vita propria e dotato di una legalità interna: totalità irripetibile nella sua singolarità, indipendente nella sua autonomia, esemplare nel suo valore, conclusa e aperta insieme nella sua definitezza che racchiude un infinito, perfetta nell’armonia e unità della sua legge di coerenza, intera nell’adeguazione reciproca fra le parti e il tutto” (cfr. p. 7).
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