Quante volte vi è capitato, di fronte all’adattamento di un’opera letteraria, di pensare che l’originale fosse stato tradito, che un film non potrà mai cogliere lo spirito di un testo (non è vero), o più semplicemente che il film non è male, il libro era meglio, le emozioni sono diverse, si torna a casa con l’amaro in bocca e tanto me l’aspettavo? Siamo stati fortunati con Il signore degli anelli, ci è andata malissimo con Il senso di Smilla per la neve.

Dall’altra parte troviamo i film che dimostrano come la trasposizione diretta non sia una necessità, quando stilemi narrativi o strutture tematiche ripercorrono temi dell’omologo cartaceo o divengono addirittura una summa dei canoni tramandati dal mezzo d’origine: dal fumetto al cinema, quando l’intermediario non è stato il personaggio su licenza bensì la riconoscenza sincera, abbiamo goduto del dittico Il sesto sensoThe Unbreakable.

The PassionCon The Passion il problema si fa un po’ più spinoso: i libri diventano quattro, godono di una certa fama che non accenna a declinare, propongono differenti livelli di lettura, e la maggior parte di noi non ne conosce che il riassunto, perché dubito che i più li abbiano letti per intero al di là della selezione liturgica settimanale. Bando al sarcasmo che ovviamente riserviamo al film con tutto il rispetto per i Vangeli, evidentemente Mel Gibson ci offre una ricostruzione delle ultime ore della vita di Cristo facendo della fedeltà il punto di forza, per quanto attinenza ai fatti e attinenza alla fonte non vadano necessariamente di pari passo e talvolta il film pare dimenticarlo. È realistico il corpo martoriato di Gesù? No, se l’accanimento è tale che non si capisce come abbia potuto portare la croce fino alla cooptazione di Simone di Cirene senza, tra le altre cose, morire prima dissanguato. Devo per forza assistere ad una tortura oltre misura (oltre l’umana sopportabilità, intendo) per comprendere la sofferenza ingiustamente inflitta? E la sofferenza qual è: quella della croce o quella, solitaria e lucidissima, del monte degli ulivi?

Atteniamoci però all’intento del film, e il dato più curioso ed apprezzabile (la fedeltà linguistica) si perde in un tentativo ipocrita di ricostruzione che rivela tutti i limiti della propria, evidente alla fine, parzialità: dell’autore, incapace di far passare il messaggio evengelico (dov’è la sconfitta della morte e la speranza di redenzione?) e della ricostruzione degli stessi attori della vicenda, al punto che aramaico e latino (a volte con l’accento romanesco, sembrava Asterix), ad un certo punto caricati del rigore filologico dell’intera vicenda, assumevano responsabilità tali da ridimensionare paradossalmente la bontà dell’intenzione originaria, quasi ad unici depositari di una parvenza di ricerca.

Ci si chiede come si può offire fedeltà quando la ricostruzione si basa sulla selezione (coerente quanto vogliamo, ma pur sempre arbitraria) da diversi testi; quando la vicenda di Pilato diviene un dramma personale, fors’anche affascinante nell’economia della narrazione ma storicamente più che dubbio; quando l’interrogatorio da Erode richiama pari pari il festino simil-gay di Jesus Christ Superstar, tanto che si attende lo stacco musicale da un momento all’altro (“If you’re the Christ, the great Jesus Christ, prove to me that you’re no fool, walk across this swimming pool”).

Non sono un teologo, un evengelologo né uno storico, ma si inizia a concedere malvolentieri il beneficio del dubbio quando anche sul piano strettamente cinematografico il film non soddisfa, mentre dal punto di vista sostanziale si assiste alla più completa banalizzazione di tutto il contesto in cui Cristo percorre la propria condanna. Per questo non ritengo che The Passion sia antisemita; semplicemente si procede per cliché e la smorfia sulla faccia uno se la tiene a mo’ di maschera per tutto il film, fattore che va un po’ al di là della pur condivisibile idea che per il contingente romano di stanza o per il popolo bue (resta il fatto che si mandava a morte una persona accolta in trionfo pochi giorni prima) l’etichetta potrebbe non essere in cima alla lista delle priorità. D’altronde una dignitosa povertà è uno dei valori forti del Vangelo, raccolto solo in parte da Gibson: qui chi è straccione fuori lo è necessariamente anche dentro.

The Passion

Il sillogismo Ebreo=deicida non mi pare quindi più di tanto imposto a corollario della pellicola, indipendentemente dal fatto che in confronto a Gibson Comunione e Liberazione è progressista o che suo padre abbia idee negazioniste; vista l’autorevolezza delle opinioni, sarebbe un po’ come dare dell’ideologo a Calderoli. Né francamente vedo nulla di male nel non dipingere il Sinedrio come una congrega di simpaticoni.

Due momenti sono sinceramente belli: il rapporto tra Gesù e Maria, e una fotografia di Matera, uno spaccato laterale della processione al suo inizio, con la folla che segue il percorso disponendosi su diversi ordini di scalinate. Ma dura così poco da sembrare casuale. E non salva il film dalla colpa di mostrarci la Celentano con un verme nel naso, dettaglio fra i tanti che, senza saperne mantenere le redini, può trasformare un dramma in un tentativo irrispettoso al di là delle pretese da kolossal.

Un’ultima osservazione – la colpa non sarà in questo caso di Gibson e sono francamente smentito dai numeri ai quali ho del resto contribuito: visti i tempi immagino che il mondo abbia bisogno di altri messaggi da quelli di puro dolore e sofferenza, tanto più che il Vangelo offre valide alternative.

The Passion

È raro l’editoriale-recensione; ma il film del momento è anche fenomeno di costume, e credo meriti qualche considerazione di attualità cinematografica. Che poi vorrei ben capire cos’è, visto che (sarò banale) mi pare ne possieda ancora di più la riproposta pasoliniana.

Curiosa la coincidenza che si parli anche di Brian di Nazareth su FM62. Quanto cinema in questi mesi sulle nostre pagine; credo che l’intervista ad Alessio Boni (il Matteo de La meglio gioventù , fresco vincitore di sei David di Donatello) sia una delle perle di sempre, ma forse parte del mio entusiasmo è motivato dall’ammirazione per il film di Giordana.

Vi lascio con un saluto da Bruxelles, dove si festeggiano Tintin e il centenario di Jacobs; per quanto riguarda l’Italia, tanti auguri per i quarant’anni di Linus, consapevole di essermi perso il meglio.