Giorgia Gelsi (GG): Siamo con Marianna Accerboni, un personaggio molto eclettico: architetto, critico d’arte e anche scenografa di eventi di luce. In questa fase della sua vita, che cosa si sente di più? Qual è il ruolo che più la rappresenta?
Marianna Accerboni (MA): Io mi sento soprattutto architetto, nel senso che architetto eventi. Di conseguenza sono anche scenografa, perché l’amore per la luce mi è venuto dalle esperienze teatrali e dall’uso molto importante che in teatro si fa della luce. Ho iniziato proprio con degli eventi teatrali fin da giovanissima e mi sono anche laureata con una tesi in scenografia. Quindi proprio sulle tavole del palcoscenico ho acquisito il significato dell’importanza della luce nella comunicazione in generale, da questo poi si è sviluppato tutto il mio amore per gli eventi di luce.
GG: In questo senso è anche un po’ una pioniera: dal ‘97 in poi si sono succeduti degli importanti “eventi” di luce, a Trieste ma non solo. In un certo senso l’evento di luce è un avvenimento effimero, un po’ come uno spettacolo teatrale.”Hinc et nunc”, dura in quel momento e basta: bene per chi è presente, e chi non c’è può vedere le fotografie, ma non è la stessa cosa. È il suo modo, questo, di intendere l’arte, come una cosa effimera?
MA: Effimera nel significato migliore della parola, cioè effimera in quanto magica. Quello che mi ha sempre affascinato nel teatro è proprio questo; ricordo le prime esperienze, quando i ballerini andavano in scena coi miei costumi al Verdi (teatro lirico di Trieste, ndr), e c’era la sarta fino ad un attimo prima dietro le quinte che cuciva l’ultimo punto sulla mutanda… Andavano in scena, con la luce e con gli applausi, andava tutto bene, ma dopo un attimo non c’era più nulla. È questo il fascino del teatro e anche il fascino della luce, è l’effimero meraviglioso del sogno e della magia. Anche l’evento di luce c’è, e dopo un attimo non c’è più nulla: c’è la luce, la fascinazione che il pubblico subisce, ma poi rimane solo l’emozione, ma anche quella è passata.
GG: Questi eventi di luce sono però spesso correlati a mostre d’arte, quindi ad opere che rimangono nel tempo; c’è quindi anche una contrapposizione…
MA: Infatti, c’è contrapposizione e anche contaminazione. Ho intitolato una mostra fatta tempo fa a Roma proprio “Contaminazione di luce”, perché la luce pittorica che si trovava nelle opere dell’artista veniva poi riproposta sulla pubblica via, insieme a delle musiche appositamente composte, in immagini di luce di opere dello stesso artista. Quindi la luce tecnologica accompagnava e interpretava la luce pittorica, di antica memoria. Basta pensare ai vedutisti del Settecento veneziano. Luce pittorica e luce tecnologica: perché oggi il pubblico ha bisogno di nuovi stimoli, nuove emozioni e nuove sensazioni. La vita corrente, la pubblicità è talmente piena di sollecitazioni, che quando la gente va a teatro o va a vedere una mostra d’arte, non gli basta più vedere i quadri appesi alle pareti…deve avere qualcosa di più.
GG: Quindi anche un buon allestimento non basta più?
MA: Un buon allestimento è sempre un buon allestimento… ma rimane sempre una cosa sola, mentre l’interdisciplinarità di più arti messe insieme, come può essere la pittura, la musica, la scenografia di luci, crea l’evento, qualcosa di ludico, magico, che il pubblico dimostra sempre di apprezzare.
GG: Si parla di gusto del pubblico. Visto che lei scrive di arte, cura anche degli allestimenti di mostre d’arte, ha sicuramente il polso di quello che è il panorama degli artisti locali, e anche quello che è il gusto del pubblico. A che punto siamo dal punto di vista artistico? Quali fermenti ci sono?
MA: Direi che il gusto sta evolvendo da performance più asciutte, più secche, più provocatorie ad un taglio neoromantico, che ripropone un concetto più narrativo, cioè un racconto visibile e comprensibile. Dall’astrazione pura, violenta ed estremista degli anni Cinquanta e Sessanta, alle provocazione delle performance più ardite — tipo “merda d’artista” — dei decenni passati, adesso stiamo evolvendo verso un momento più equilibrato, in cui la narrazione del concetto viene esplicitata.
GG: Volendo essere più chiari?
MA: Non c’è più l’astratto, o meglio c’è ma in misura minore, e cede il passo ad una forma di racconto figurativo, anche se essenziale.
GG: In questo senso la multidisciplinarità di cui si parlava prima è un aiuto?
MA: Aiuta sempre, per chi ha voglia di farla. Certo ha anche dei costi, quello che faccio io diventa praticamente uno spettacolo: anche questo può frenare certe iniziative. Ma certamente l’evento di luce e la multidisciplinarità aiuta a raccontare.
GG: In tutto questo panorama della sua attività così ricca e sfaccettata, che spazio c’è per la didattica?
MA: Bella domanda, perché coglie una delle mie esperienze. Io da anni, infatti, tengo un corso di scenografia e costumistica nell’ambito della Scuola del Vedere di Trieste (un’accademia di Belle Arti privata). L’esperienza didattica, che si configura in riunioni di piccoli gruppi, ha dato a volte risultati molto forti. Infatti, con i miei allievi — che poi sono spesso artisti già formati, magari di cinquanta o sessant’anni, altri più giovani di venti, trent’anni — siamo riusciti a realizzare scene e costumi per uno spettacolo. Facciamo anche delle mostre, e proprio una di queste ha fatto sì che passasse un regista che ci ha reclutato tutti per “Le nozze di Figaro” a Salerno. Il risultato, se il lavoro è serio, è quindi molto tangibile.
GG: Un’ultima domanda che riguarda invece i progetti futuri: supportata dalle nuove tecnologie che aiutano questo tipo di sperimentazioni, quali sono le prossime tappe che si prefigge?
MA: Le prossime tappe sono innanzitutto una mostra dedicata proprio a queste opere fatte dai miei allievi e che coinvolgerà anche la luce e la musica, che si chiama “Il laboratorio dei sogni”. E poi continuare sulla via della luce naturalmente…