Immagine articolo Fucine MuteCorrado Premuda (CP): Lei ha girato il film “Retour à Kotelnitch” per sé o in omaggio a Sasha ed Ania? Penso che il film, che è la storia di queste due persone che lei ha conosciuto, sia anche la sua storia personale. È d’accordo?

Emmanuel Carrère (EC): È davvero una domanda interessante, ma la mia risposta non sarà netta: esistono, infatti, entrambe le motivazioni. Ciò che mi ha spinto a realizzare il film è stata una specie di ricerca delle origini, molto intima e privata, quindi da questo punto di vista l’ho fatto per me, ma allo stesso tempo mi sono dovuto confrontare con una vicenda tragica, con la morte di questa ragazza che avevo conosciuto. È stato come se a questa storia personale avesse fatto eco una storia che non era la mia e che, lo si capisce, mi ha segnato e spero possa commuovere gli spettatori. È proprio questo che fa sì che, in effetti, alla fine il film sia oltre che un ricordo di Ania anche una dedica a Sasha, alla madre della ragazza, ai suoi parenti.

CP: Lei ha realizzato un film drammatico, ma penso che sia difficile girare un film come questo senza correre il rischio di speculare sulla tragedia umana..

EC: Parlando di speculazione, esibizione del dolore e tutto ciò che si può obiettare ad un film come questo, ciò che mi preme di sottolineare è che, se ti ricordi, c’è un momento, verso la fine del film, durante il quale Sasha dice a me ed al mio cameraman Philippe: “Ecco cosa dovete fare nel film, ti prego, non specularci sopra, se lo vuoi davvero, ti do la mia autorizzazione, non mi dispiace che realizzi un film su questa esperienza, che utilizzi tutto ciò che abbiamo vissuto assieme, basta che tu lo faccia con delicatezza e onestà”. È stato una specie di contratto fra noi. Quando gli ho mostrato il lavoro, quando siamo giunti a quel momento che si vede anche nel film, ha fatto esattamente lo stesso gesto nella realtà, eravamo assieme davanti al televisore, mi ha appoggiato la mano sul braccio e mi ha detto: “Ci sei riuscito, hai mantenuto la tua promessa”. E per me questo è stato come un “visto”, sai, un’approvazione. Penso sia stato importante.

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CP: I personaggi principali del film sono Sasha e Ania, ma secondo me la protagonista è la mamma di Ania. Secondo lei?

EC: Sì, è un personaggio straordinariamente commovente, ha un’intensità emotiva incredibile. Corrisponde un po’ agli stereotipi sulla Russia, sull’anima russa, ma sai, quando si scopre che un’idea corrisponde al vero è un’emozione fortissima. Lei può passare dal riso alle lacrime, o da un attimo all’altro può insultarti o abbracciarti come se tu fossi suo figlio, così..
È una donna incredibile. Penso del resto che poche attrici sarebbero capaci di fare ciò che la vediamo compire in questo film…e ovviamente lei non è affatto un’attrice.

CP: Kotelnitch sembra essere una città-personaggio… le ha suggerito qualcosa di particolare?

EC: È una città dove sono capitato la prima volta per caso, poi quando ci sono tornato avrei potuto scegliere un’altra piccola città russa sempre per caso, così… Avrei potuto, prendere una cartina geografica e con una matita dire là… Ma alla fine, no, è stata Kotelnitch perché ero stato lì, perché è stato lì che ho conosciuto Ania, lì che ho incontrato Sasha. Tutto è successo a Kotelnitch che non voleva dire assolutamente nulla per me, e ha finito per acquistare un valore romantico, intimo, fortissimo. È il caso della vita, è qualcosa di misterioso.

CP: Come scrittore e regista, lei crede di avere qualche tipo di responsabilità nei confronti del suo pubblico, dei suoi amici, della sua patria o della sua famiglia?

EC: In che senso? Intendi responsabilità verso il pubblico o per esempio nei confronti dei personaggi del film o dei romanzi…

CP: Entrambe le cose.

EC: Nei confronti dei personaggi del film, di Ania, di Sasha, della madre, oppure verso i personaggi di un romanzo, soprattutto quando si tratta di persone reali, come nel caso del mio libro “L’Avversario”, sicuramente sì, sento una fortissima responsabilità, è una cosa molto delicata, e cerco alla fine di mettere in pratica quello che mi ha detto Sasha, cioè di sfiorare la loro vita, la loro intimità nel modo più impercettibile possibile, ma lì sì che sento un forte senso di responsabilità.
Nei confronti del pubblico, noi saprei cosa rispondere. Direi di no.

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CP: Una domanda un po’ banale: che differenza c’è tra il fatto di scrivere un romanzo o scrivere una sceneggiatura?

EC: È completamente diverso. Credo che scrivere una sceneggiatura sia molto più simile a scrivere un testo teatrale, che è una cosa che non ho mai fatto. Consiste unicamente di dialoghi, è soprattutto un soggetto, ma una sceneggiatura non esiste quasi nemmeno in sé, è una cosa che ha bisogno d’incarnarsi successivamente in un’altra forma. Nel caso di un romanzo, invece, una volta che hai terminato di scriverlo, è davvero concluso, la sceneggiatura, invece, è un oggetto transitorio.

CP: A lei piace molto provocare il pubblico, anche con i suoi romanzi. Ad esempio “Usage du monde” è una provocazione…

EC: Su questo punto sono d’accordo, ma non condivido nel dire che io ami provocare in generale, credo che il film di cui stiamo parlando non abbia nulla di provocatorio, piuttosto spero che possa essere commovente. Penso che nemmeno “L’Avversario” o l’insieme dei libri che ho scritto possano essere provocatori. Questo raccontino di cui parli, che è stato tradotto in italiano con il titolo “Facciamo un gioco”, è certamente una provocazione, penso possa essere simpatico e divertente… Qualche volta nelle provocazioni c’è una componente di crudeltà che qui non vedo, poi anche questo raccontino è un po’ singolare per me…

CP: Nel libro “L’Avversario” lei parla del male universale. I personaggi ed i fatti sono veri, ma il protagonista sembra essere il diavolo o la personificazione del male. Le sembra così?

EC: No, non direi proprio. Non direi affatto che sia la personificazione del male o il demonio, non lo direi mai di un essere umano. Quello che credo, ed è a ciò che fa riferimento il titolo, è che, se il diavolo esiste lo si può pensare non obbligatoriamente in senso religioso, ma come una specie di istanza psicologica dentro ciascuno di noi, questa parte celata non solo a noi, ma anche a se stessa. Penso che nel romanzo, il protagonista abbia fronteggiato questo avversario, e ne sia stato sconfitto, vinto. Non direi però che sia il diavolo o altro.

CP: A lei piace scrivere storie realistiche, parlare o scrivere di personaggi reali, è così?

EC: Sì, ma mi è capitato solo due volte in realtà, ne “L’Avversario” e in questo film, che alla fine è un documentario. Tutte le altre cose che ho scritto sono più opere di fantasia. Cos’altro aggiungere…Non so.

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CP: Un’ultima domanda. Lei sta per realizzare un film dal suo libro intitolato “Baffi”. Come pensa di girarlo, ha già dei progetti?

EC: Non sono in fase di ripresa, sto ancora finendo di scrivere la sceneggiatura, sono ancora molto lontano dal momento in cui inizierò a girare il film. Ho certamente già dei progetti su come realizzarlo, non avrei mai iniziato altrimenti. C’è un insieme di difficoltà e di eccitazione nella cosa. Nel senso che è eccitante il fatto che il romanzo si svolga nella testa del suo personaggio principale che non smette mai di pensare, di ragionare, e questo è difficile da rendere al cinema. Al cinema hai dei dialoghi e la gestualità, ma non il pensiero, e quello che sto cercando di fare è proprio di rendere il pensiero attraverso questi due elementi. È complicato ma anche stimolante.

La traduzione è a cura di Michela Cristofoli