Nell’ambito di Torino Film Festival 2003 la formulazione che ricorre più frequentemente è quella di cinema apolide, di un cinema capace cioè di varcare i confini per volgere la sua attenzione verso la luce, lo sguardo, il suono, i colori, i corpi all’interno di film rari e spesso invisibili, sempre “irriducibili”.
Per conoscere più da vicino i cineasti che in tempi più o meno recenti hanno creato questo cinema, abbiamo rivolto alcune domande a Roberto Turigliatto, direttore di Torino Film Festival, curatore del programma su Raitre “Fuori Orario” e di numerose retrospettive e monografie dedicate alle nouvelles vagues ed ai loro principali esponenti.
Sarah Gherbitz (SG): Lei appartiene alla generazione di critici cinematografici che si è formata nei primi anni Settanta. Che cosa succedeva a Torino in quel periodo?
Roberto Turigliatto (RT): Sì, era il periodo in cui, in modo molto spontaneo, direi quasi selvaggio si cominciavano a creare delle sale a Roma, a Milano, a Genova; a Torino gestivamo il Movie Club, dove a differenza dei cineclub tradizionali in cui si proiettava un solo film alla settimana, di solito il lunedì sera seguito da un dibattito, cercavamo di recuperare film del passato oppure film che non uscivano nei regolari circuiti per proiettarli durante quasi tutto l’arco del giorno all’insegna della cinefilia totale.
SG: Com’è iniziata la sua collaborazione con il Torino Film Festival?
RT: Nel 1982 c’è stata la prima edizione del festival, nell’83 non si è fatto, poi è ripreso l’anno successivo, in cui mi occupai della retrospettiva sulla nouvelle vague francese. Da allora il festival ha incominciato a rivisitare le cinematografie degli anni Sessanta e Settanta in maniera continuativa, e secondo un modo di concepire le retrospettive che ci contraddistingue tuttora, cioè il più complete possibili o comunque sempre con molti film ed un libro che le accompagna.
SG: E quali altre nouvelles vagues si sono viste a Torino Film Festival?
RT: Nel 1988 ho lavorato con la Polonia, esattamente un anno prima della caduta del Muro, e direi che conoscere quel mondo prima che tutto cambiasse si è rivelata un’esperienza fondamentale. Ricordo che portammo al Torino Film Festival diversi cineasti polacchi e la retrospettiva andò assai bene; da lì sono nate due personali, una su Skolimowski e l’altra su Krzysztof Kieslowski, tra l’altro la prima che è stata fatta fuori dalla Polonia quando lui aveva appena finito il Decalogo. Poi c’è stata quella dedicata al cinema cecoslovacco sempre degli anni Sessanta, più alcune personali di autori sparsi come Philippe Garrel, Robert Kramer, Manoel De Oliveira, l’anno scorso Julio Bressane.
SG: Che cosa hanno in comune registi così diversi tra loro?
RT: Per me è sempre più interessante lavorare su cineasti da scoprire, non molto conosciuti, piuttosto che su autori consacrati. Ciò che conta è questo spirito di curiosità che mi porta a cercare qualcosa che non conosco.
SG: Qual è stato il suo approccio con il cinema portoghese?
RT: La prima cosa che ho fatto è stata una personale su Paulo Rocha nel 1995, che allora non era molto conosciuto in Italia e che negli anni Sessanta, quindi nel periodo in cui c’era ancora la dittatura fascista in Portogallo, è stato l’iniziatore del cinema novo.
Cinque anni dopo, con Simona Fina della Cinemateca Portuguesa, continuammo ad esplorare questa cinematografia alla quale si erano aggiunti alcuni autori esplosi prima della Rivoluzione del 1974 come Fernando Lopes, Alberto Seixas Santos, Joao Cesar Monteiro…
SG: E Monteiro? Venne a Torino in occasione della retrospettiva?
RT: Ho incontrato Monteiro una sola volta, a Lisbona, in cui abbiamo parlato di filosofia e letteratura. In quel periodo lui sperava di fare un film tratto da La philosophie dans le bouidoir di De Sade, destinato a rimanere un progetto incompiuto. Cercammo quindi di farlo venire a Torino insieme agli altri cineasti per la retrospettiva, ma lui rifiutò, accordandoci semplicemente l’autorizzazione di proiettare i film che avevamo scelto.
SG: Con quale criterio avete scelto i suoi film per l’omaggio di quest’anno?
RT: Abbiamo realizzato questo piccolo omaggio con l’idea di proiettare l’ultimo film Va e Vem in anteprima per l’Italia unitamente ai suoi primi lavori degli anni Settanta, tra cui il cortometraggio Quem espera por sapatos de defunto morre descalço (Chi aspetta le scarpe del morto muore scalzo). In particolare tra questo e l’ultimo film ci sono molte corrispondenze, come l’immagine della piazza con al centro il grande albero oppure come l’occhio di Luis Miguel Cintra, questo sguardo lunghissimo, della durata di un minuto e mezzo, che richiama l’occhio finale di Va e Vem.
SG: Qual era il rapporto di Monteiro con la letteratura?
RT: I suoi dialoghi hanno un forte valore letterario, perché pieni di citazioni tratte dalla letteratura o anche dalla poesia, come si vede anche nel ritratto che Monteiro fece della poetessa portoghese Sophia De Mello Breyner Andresen, o dal lavoro sui testi di James Joyce e di André Breton in A Sagrada Familia.
SG: Qual era la sua idea del cinema?
RT: I suoi gusti di cinema erano su una linea molto precisa che comprendeva cineasti come Dreyer, Straub, Bresson. Ricordo che la sera prima del nostro incontro a Lisbona aveva visto Mouchette e parlammo per un’ora di quello. Tra l’altro non bisogna dimenticare che lui fu il collaboratore di Trafic, la rivista di cinema francese fondata da Serge Daney. Sosteneva l’idea che compiere una ripresa cinematografica equivale ad un gesto di profanazione nei confronti del reale in grado di restituirci un’immagine del cinema intrisa di sacralità.
SG: Come venivano recepite queste sue dichiarazioni?
RT: Monteiro riusciva a suscitare sempre molte polemiche e le sue dichiarazioni venivano sempre guardate con sospetto per quel loro porsi al di fuori del coro, rivelando indubbiamente una personalità complessa, trasgressiva: per certi versi anche un po’ blasfema. D’altra parte, è vero che altri colleghi, anche della generazione più giovane come Botelho, risultano più tradizionalisti.
SG: Quali altre cinematografie si possono vedere quest’anno al Torino Film Festival?
RT: Abbiamo cercato di portare al festival tipi di cinema diverso, film diversi da paesi diversi. Alla base delle nostre scelte c’è l’idea che si possano evitare barriere troppo rigide per instaurare lo scambio e la comunicazione, e muoversi con libertà sulla carta geografica per arrivare a territori di cinema in buona parte inesplorati.