Immagine articolo Fucine Mute“Orgasm”, uscito nell’autunno del 2003, è il quarto album degli Atrox, band sulle scene da diversi anni che ha affrontato infiniti cambi di formazione e diversi problemi con le case discografiche. Ora, accasati presso la code666, gli Atrox sembrano aver trovato la giusta dimensione, nonché, per quanto ho potuto ascoltare delle loro produzioni passate, un equilibrio notevole nella loro proposta musicale. Poiché non è il caso di complicare una descrizione cercando definizioni strambe, si può dire che i cinque ragazzi intendono suonare metal in maniera “progressive”, ma — come spesso succede — in passato è mancata loro la capacità di colpire sempre nel segno, ovvero di essere diretti, senza annoiare l’ascoltatore perdendosi in noiosi virtuosismi. A “Orgasm” non difetta nulla dal punto di vista tecnico, ma la novità significativa è che si tratta di un album per la sua interezza coinvolgente e dal quale non ci si distrae. Pezzi come “Flesh City” e “Burning Bridges” sono sia delle cavalcate furiose sia delle dimostrazioni di bravura, frutto, come mi è sembrato di dedurre dall’intervista pubblicata su Fucine Mute, di una mediazione tra le inclinazioni eclettiche della cantante Monika Edvardsen e la volontà del chitarrista Eivind Fjoseide (che fa parte anche degli splendidi e stranianti Manes) di rimanere d’impatto. Ecco dunque che le due canzoni succitate, tra improvvisi cambi di tempo e un riffing intensissimo, non perdono mai di mordente. Aggiungerei anche il colpo sulla nuca inferto da “Secondhand Traumas”, traccia che, dopo un inizio moderato, sferra un nuovo attacco in pieno stile thrash.
Questo equilibrio tra abilità e freschezza era la novità importante da sottolineare, ma la band di Trondheim (Norvegia) ha mantenuto anche le buone abitudini del passato. La prima è sicuramente Monika stessa, che, per chi non lo sapesse, è solitamente riconosciuta come il punto di forza del gruppo, a causa delle sue notevoli capacità vocali. In questo album è — a mio avviso — completamente pazza, ma, soprattutto, “divertita”: come spiegare altrimenti la performance della prima traccia, “Methods of Survival”? Si tratta di un pezzo che parte mediamente sostenuto e in seguito si placa. La Edvardsen sembra quasi non voler essere ingombrante — per i suoi canoni — nell’economia della canzone, tanto che il tutto sembra quasi perdersi in un gioco di chitarra quasi burlesco (mi ha ricordato i momenti de “La Masquerade Infernale” nei quali gli Arcturus facevano i giullari), ma all’improvviso lei si produce in delle urla folli e acutissime in contemporanea a un indescrivibile diluvio di doppia cassa che scuote nuovamente l’esterrefatto ascoltatore.

Immagine articolo Fucine MuteA prova delle capacità istrioniche di Monika sta la spassosissima cover dell’album, della quale è lei stessa l’autrice: in pratica, una sorta di quadro di Bosch calato nel mondo dei cartoon; per non parlare del retro del cd, dove la cantante gioca amabilmente con un nome che lei stessa ammette non avere quasi più nulla a che spartire con il gruppo. Alle atrocità si è sostituito il gioco: se il mostruoso c’è, è quello ironico di un immaginario alla Tim Burton. Non va dimenticato inoltre il fatto che è lei a dare l’ultima cesellata ad alcuni brani attraverso soluzioni tastieristiche, probabilmente — visto che non ho avuto la possibilità di ascoltarlo — derivate dalla sua esperienza con l’altro suo progetto musicale, i Tactile Gemma. Infine, bisognerebbe considerare anche i testi delle canzoni, sempre a un livello di complessità al di sopra della media; a questo proposito si veda nuovamente l’intervista, in particolare la risposta sull’ammaliante “This Vigil”.

Chiuso questo capitolo, è il caso di ribadire ancora una volta l’estro compositivo del gruppo, tanto che qualcuno si è sentito di parlare di parti jazz all’interno di “Orgasm”, mentre si potrebbe più semplicemente affermare che le corde che vengono suonate in determinati passaggi di “Orgasm” non sono sempre quelle tipiche del metal: da qui il disorientamento della critica, e dunque la vittoria dell’artista, per parafrasare Oscar Wilde. Sempre a questo proposito bisognerebbe accennare al tentativo sporadico di contaminazione con la musica etnica, che si percepisce qua e là all’interno dell’album, ma preferirei che orecchie più allenate e colte delle mie lo riscontrassero con sicurezza. E, pur trattandosi di progressive, la piacevole sorpresa è che non c’è nessun assolo di chitarra.
Chi conosce già il gruppo deve sapere oltretutto che, se si esclude quell’immaginario un po’ burtoniano di cui sopra, la componente “gotica” della sua musica è quasi del tutto sparita, o quantomeno soverchiata dalle ambizioni sperimentali ed evolutive. Si potrebbe piuttosto azzardare un paragone coi Meshuggah, giustificato dall’intricatezza e dalla poliritmia delle canzoni, mentre, per quanto riguarda lo stile vocale di Monika, a mio avviso sarebbero fuorvianti i consueti paragoni con le cantanti dei The Gathering, Lacrimosa o Lacuna Coil, perché — come ho avuto modo di sottolineare — lei si diverte.

Immagine articolo Fucine MutePer certi versi questo è il disco più metal mai trattato su Fucine Mute, e immagino il terrore di più di qualche lettore, ma si tratta di qualcosa di talmente personale e sprezzante di tutti gli schematismi tipici di quel genere che non è sconsigliabile un giro sulla webradio della code666 per ascoltarsi qualche preview.