Venerdì nove maggio, anno corrente di nostro mr. Signore… Mortegliano, Udine, Italia, Europa, mondo; attesa del momento, Marlene Kuntz. Arrivano con quel “tardo” che non guasta, salgono sul palco e iniziano senza convenevoli…Ore 22.30 circa ed è subito bagarre ormonale e neurale. Due ore di concerto, quasi, pubblico-parentado variegato e ben disposto. Poco più in là solito contorno, tende e tendine, soliti “stend” e “stendini”. L’avvio è a ritmi da catena di montaggio, con brani dell’ultimo lavoro il “senza peso”. Sacrosantaverità-ci siamo amati-a fior di pelle-secondo chi vorrà-con lubricità, pause brevi e poi via via…Nuotando nell’aria-infinità-come stavamo ieri-ineluttabile-aurora-il vile-le putte, pause brevi, noncuranti, e via proprio via…Lieve-cara è la fine-serrande alzate-l’abbraccio-canzone di oggi-questo e altro, e spore ovunque, e, due sogni-malinconica-l’odio migliore-l’abitudine-una canzone arresa, e vampa delle impressioni e ancora spore ovunque… e tutto scorre…E poi, scorre. Sono solo parole, quel che conta è che sono fuori al dentro di un ascolto visionario.

Immagine articolo Fucine Mute

Più che fare una cronaca del tempo inferto-offerto dai Marlene Kuntz, è il resto, sono i resti che lasciano nell’aria che vanno detti. Mi getto in una cronica scrittura: articolo 1: Il concerto è malattia e farmaco imperdibili, da accogliere entrambi. Poi visioni sparse nella gola… Altalene alienate, bambini capricciosi e incazzati, camminate leggere su mari acidi, cavalli di ferro a ingoiare le nebbie dell’anima, astronavi disperate senza più nemmeno il buio attorno, buffe e tragiche geishe partorenti nani, non sette, innumerevoli stelle nane luminose e deformi, frati custodi di una cattedrale nel deserto, operai a forare e poi murare l’aria, senza fine, senza un fine; disattenti e svogliati mercanti del niente, puttane addormentate e adoperate nel sonno davanti a un paradiso itinerante. Ballate, semplici ballate; ma intrise di ruvide e ironiche dolcezze, di liquide tristezze, di compleanni di nervi, di sangue denso di celeste, di una matematica dello spirito. È s-finito il concerto in un abbandono di strumenti, soli, in distorsione totale, e loro, a guardare lontano, ben oltre al pubblico… Sotto a quel tendone che sembra un sole, giallo, poi blu, poi nero; in odor rosso. Consigli, per curiosità e maldicenze… Il cantante, quando per convenzione presenta i brani, sembra faccia fatica a parlare, fa fatica a parlare; mentre la parola esce, il suono della stessa, il suo corpo fonico è già lontano, da un’altra parte, è separato e diverso dal significato della parola. La gioia divisa, la consapevolezza del sapore dell’inutile utilità del cammino quotidiano. La sensazione del vago comunicare. La pulsione di un desiderio di dire qualcosa, che è già un dire; è l’unico dire. E’strano il suo modo di dire ciao, sembra voler dire addio, anche il gesto di saluto, più che un a-rivederci, sembra dire-chiedere, ma dove cazzo siamo noi-e-voi. Quei pochi gesti trasmettono disagio della presenza, allontanamento, distanza. Contatto diretto con il pubblico, mai. Marlene Kuntz, negli occhi del pubblico vedono specchi, numerosi minuscoli brulicanti fottuti frammenti di specchi. Nessuna concessione alla socialità, al vi voglio bene; meno male, niente ipocrisia. Questo è quel che si “vede sentito” nello spazio performativo, ne consegue, che se pane è pane, Marlene si mostra così; è così. Quindi concerto come luogo sacro, delle metamorfosi, della volontà de-pensata, dello s-finimento per librarsi in un’estasi orfana di inizio e fine. Senza peso, senza uomo, tutto sospeso…A volte espulso. Musica e parole in loro, sono un ricamo di conflitti; fuoco e “spegnimento” si creano a vicenda… ora la fine è già un’abitudine… la mia culla è meraviglia esplosa… la mia culla è poesia ansiosa… ma che discesa gloriosa fa quel magma senza fermarsi mai! Come una belva furiosa il suo inferno porta, portando guai! Antonini Artaud e Carmeli Bene della scena musicale italiana! Siamo. Se ne sono andati. Finale con svaccamento generale, si mangia e si beve e si “palpa”, anche qui, come dappertutto del resto. Si va a un “incontro culturale” per questo in fin dei conti. È solo nel mentre dell’accadimento che si è rapiti, tolti a ‘sto mondo, finito l’evento, se ne va l’atmosfera del rapimento e, si ritorna nell’assemblamento. Niente è cambiato, le solite droghette, le solite macchiette, le solite ‘michette…la stessa storia, che nuovamente si ripete, forse in questo sta l’incanto.

Immagine articolo Fucine Mute

Credo di aver capito perché un concerto rock non perderà mai il suo valore, perché il suo valore è quello di non servire a niente, e tutte le cose così si ripetono in eterno. In una situazione simile si annulla, si azzera la differenza del tempo: la stessa età per tutti; una cosa è diversa, una sensazione; chi è più “grande” credo senta l’anima più ossea, senta la poesia del momento con lacrime di fuoco, riesce a toccare il pallottoliere della morte, non so se riesce a contarla; a raccontarla probabilmente sì. Mentre il calcio continua a imperversare anche qui, mi sembra che scrivere sia un “nevicare di ruggine”. Eppure a momenti, nel durante, si vedeva un mare di gole affamate di poesia, con tutto quel che la stessa si tira dietro… sesso morte sogno vita abbandono. A un concerto di tal fattura, è un acido andarci in gruppo, da soli è un’orgia di solitudini, con la tua donna-o-uomo è una pioggia di umori… se per questi ultimi due, l’amore dopo non dura per sempre, sono stronzi. Per quel che mi riguarda, tali ore le ho raccolte in questo “abbraccio” :- Il diavolo è l’angelo, che mangia, divora i pensieri per finalmente vomitar ali, bagnate e andate, in quel ciel di un ciel di peso. Il diavolo tradisce, l’angelo tradisce; colui che è angelo e diavolo insieme, non può tradire, non tradirà mai. Buone visioni in ascolto con Emme. Cappa.