Togliete un posto tavola, un grande giocoliere del fantastico italiano non viene più.
Con Antonio Margheriti, terzo lato di un bel triangolo insieme a Mario Bava e Riccardo Freda, scompare una figura di riferimento per chi del cinema ha sempre amato la valenza eversiva e provocatoria.
Quando lo incontrammo a Trieste, ospite del rinato Festival di Fantascienza, fu un idillio: autoironico e salace, Margheriti trascinava sempre con sé un pezzo della Cinecittà più ruspante, quella dove “volere è potere” e dove alla mancanza di mezzi economici si supplisce con la sovvrabbondanza di mezzi inventivi.
Simpatico, accidenti se lo era, ed anche discontinuo, capace di passare da un capolavoro del gotico italiano come “Danza Macabra”(protagonista Barbara Steele, regale dark lady del gotico italiano) ai gialli con il maniaco in guanti neri di turno, sulla falsariga di Dario Argento, per intenderci.
Nella sua filmografia trovano posto straordinari colpi di genio visivo come “Nella stretta morsa del ragno” (che del suddetto “Danza macabra” è il raffinatissimo remake a colori), dove Klaus Kinsky interpreta magistralmente Edgar Allan Poe e tonfi clamorosi come “Contronatura”, anche se mai gli venne meno una preziosa capacità descrittiva.
I suoi lavori di fantascienza sono divenuti oggetti di culto soprattutto per l’ingenuità delle sceneggiature, per le improbabili scenografie e le altrettanto improbabili eroine bionde in calzamaglia colorata.
Ma pure per il suggestivo “Il pianeta degli uomini spenti” (1961)ebbe a lavorare con attori del calibro di Claude Rains, mentre molti dei registi più idolatrati delle ultime generazioni (Quentin Tarantino in testa) hanno ribadito un debito morale nei confronti di Margheriti ed altri registi del suo periodo e stile.
A Trieste il regista romano ebbe modo di rivedere in sala alcuni dei suoi piccoli grandi classici, come il pionieristico “Space Man”, in assoluto il primo film di fantascienza italiano, girato nel 1960 con quattro lire ed alcune armi giocattolo acquistate dal regista stesso in un negozio della Capitale.
Tra l’altro, Margheriti amava rammentare il suo rapporto di stima e di amicizia per Mario Bava, che nel medesimo momento in cui si girava “Space Man” era impegnato con il primo giro di manovella del suo allucinante, stupendo “La maschera del demonio”.
Bava e Margheriti erano probabilmente uniti anche dalla stessa provenienza popolare, ruspante, aliena invece dal microcosmo dell’aristocratico Riccardo Freda, uno che per protesta contro lo squallore italico era riparato a Parigi.
Davvero con questa improvvisa dipartita siamo più soli, privati anche delle “adorabili sciocchezze” come le definì un critico dei quotidiani, dai titoli variopinti come “I diafanoidi vengono da marte” o “I criminali della galassia”, grazie ai quali abbiamo detto la nostra sulla science fiction: a modo nostro, ridendoci sopra.
Negli ultimi anni, perplesso di fronte all’imperversare degli effetti speciali (ridondanti, inutili, spesso urticanti) nel cinema americano e non, Antonio Margheriti aveva scelto la filosofia del silenzio.
Continuava ad occuparsi di cinema in varie forme, aiutando il figlio che a Roma si occupava con successo di una bottega di effetti speciali (ma lo sapevate che Margheriti senior venne persino contattato da Stanley Kubrick per gli effetti di “2001 Odissea nello spazio”?) ma la regia gli appariva ormai lontana, così come lontana è purtroppo l’ottica, lo ripetiamo bonariamente, popolare, con cui noi italiani ci cimentavamo nel “fantastique”…