Christian Sinicco (CS): Gian Mario Villalta, poeta: la tua poesia descrive la realtà semplicemente e con molta precisione. Dunque, una domanda tecnica: la descrizione come strumento in poesia.

Gian Mario Villalta (GMV): Hai azzeccato una cosa per me molto importante. Ho abbandonato il lavoro di “colorare la realtà” attraverso metafore o qualcosa che potrebbe sembrare un apporto della mente alla realtà che si vede. Quello che vorrei fare, non so se ci riesco ma ci provo, è far entrare dentro di me le cose al punto tale da dirle come sono semplicemente. Tecnicamente funziona attraverso semplificazioni, passaggi e divieti come in ogni forma d’arte, con regole da rispettare che nascono dall’idea di fondo che hai intuito: lasciar passare la realtà, lasciare che entri nei movimenti del corpo, nel modo di vedere le cose, e cercare di darle una forma. Spesso una forma molto semplice: abbiamo avuto nel secolo passato poesia di altissimo livello che ha fatto il lavoro contrario, ma per quella strada secondo me non si può più andare avanti.

CS: “Nel buio degli alberi”: si nota che la comunicazione migliora quando nella tua poesia intervengono in maniera molto semplice concetti — come il tempo — che aggiungono movimento, per cui le visioni si caricano di emozione.

GMV: Questo è un mio tema. Ho scritto una raccolta di racconti, “Un dolore riconoscente”, quindici racconti a ritroso nel tempo. Le vite dei figli del baby boom come me — nati alla fine degli anni ’50 o all’inizio dei ’60 — hanno subito dei passaggi velocissimi, e un mondo è cambiato e si è trasformato. Nel tema del tempo cerco proprio di catturare questo: chi ha la mia età ha nella sua memoria, nella sua vita, nel suo rapporto con le cose, tempi molto differenti da far convivere. Narrativamente a volte è più facile, perché puoi costruire questa differenza in maniera articolata; con la poesia è necessario il lavoro di semplificazione, e non sempre il risultato è denso nelle parole e nei concetti. Cerco sempre di passare, spero che si noti, attraverso un “sentire”, attraverso ciò che il corpo percepisce. Un sentire che in fondo è sempre attuale, ma che viene da più lontano, nel tentativo di mostrare come tutti questi fattori coesistano.

CS: Tu a volte sacrifichi alla precisione dei versi tanta emozione, tanto carico di immagini. È possibile invece lavorare per portare immagine nella poesia a scapito della forma?

GMV: Due cose: questo libro è nato per essere un condensato, e contiene cose molto diverse: anche cose più narrative, immediate, e meno “ferme” dal punto di vista formale. Bisogna dire poi che ognuno fa i conti con la propria storia, quella personale e quella delle tradizioni in cui si trova, delle esperienze poetiche con cui si è confrontato. Noi ascoltiamo Stanisic in italiano, e non cogliamo ciò che scrive nella sua lingua; a volte mi ricorda altri autori della sua lingua che conosco, e so che alcune cose in italiano sono forti perché lui è estraneo alla nostra lingua, e che per noi sarebbero sottoposte a divieto. Il nostro modo di sentire la rima, ad esempio, è molto diversi. Quindi l’effetto in traduzione è molto efficace sul piano dell’impatto laddove si perde la forma: sarebbe bello arrivare ad una poesia di maggior impatto, ma non è semplice, perché ognuno ritaglia all’interno di ciò che può fare o che sa fare la propria strada.
Non possiamo fingere esperienze che non abbiamo: Stanisic ha un suo vissuto di guerra, immaginazione, di vicinanza patita nel corpo, nel luogo in cui vive, nella lingua, che sarebbe affettazione etica fingere da parte nostra, ed onestamente da parte mia. Non le sentirei false — sono tutte cose vere —, ma devo parlare del mio vissuto, o la poesia mi suonerebbe fasulla.

Posso aggiungere solo che incontro
sullo stradone ogni mattina
o pioppi, e uno per uno
fogliano lenti e insieme fanno il tempo.
Ogni giorno anche loro cambiano,
li indovino nel verde più intenso
(vorrei fermarmi, guardarli uno per uno)
e quando ritorno, ogni giorno, nell’altro senso,
li perdo — e allora penso: passano.

(Posso aggiungere solo che incontro, da Nel buio degli alberi, La barca di Babele, Meduno, 2001).