Christian Sinicco (CS): Miroslav Košuta, poeta e drammaturgo. Tu sei stato per vent’anni direttore e responsabile del Teatro Stabile Sloveno: la prima domanda riguarda quindi il rapporto tra poesia e teatro.
Miroslav Košuta (MK): È una domanda che potremmo definire banale ma che mi pone in grosse difficoltà. Per tutto questo tempo, questo ventennio in cui sono stato direttore unico del Teatro Stabile Sloveno, non sono purtroppo riuscito a dedicare abbastanza tempo al Miroslav Kosuta poeta. È vero che quello sloveno è un teatro di minoranza, che il personale si stava riducendo di anno in anno… Agli inizi degli anni ’90 eravamo quasi 70 persone compresi gli attori, poi il numero si è dimezzato; continuava a scendere, e spero siano riusciti a tamponare questa falla che lasciava uscire senza far rientrare nulla. Fare dunque il direttore artistico, il contabile ed il supervisore, perché è difficile fidarsi di chicchessia; avevo collaboratori ottimi, gente che stimo e che mi ha molto aiutato, ma il mio lavoro consisteva in ventiquattro ore teatrali. A volte si riusciva ad abbozzare qualche verso, e poi per il mio modo di scrivere molto particolare (mi annoto l’idea, una rima, a volte una parola dalla quale piano piano si evolve la poesia) quel tempo si riduce al minimo. Tra i miei lavori cito due tra i miei maestri: Umberto Saba e Giuseppe Ungaretti, che scriveva poesie brevissime. Anch’io cerco di scrivere poesie molto brevi, ma il contenuto di quella brevità deve essere pari ad una poesia di più versi. Il problema era quello del direttore che non aveva abbastanza tempo per fare il poeta, come poeta annotava quelle visioni di diversa natura (sono autore di una decina di libri di poesia “normale”, ed altrettanti per ragazzi). Così, quando quattro anni fa ho lasciato il teatro, sono riuscito a pubblicare cinque raccolte di poesia avendo tutto questo nel cassetto, dove ce le aveva messe il “compagno del direttore teatrale”.
CS: Abbiamo visto i libri per ragazzi, illustrati molto bene. Quale valore educativo può avere questo genere di poesia?
MK: Questo non saprei dirlo, lo lascio decidere ai lettori, ai maestri, ai genitori, e soprattutto ai bambini. Le mie poesie sono contengono sempre la gioia di raccontare, di avere delle visioni, non sono educative nel “vecchio”, più che nel vero, senso della parola. Ma esprimono la volontà di approfondire la conoscenza della lingua, del mondo che ci circonda, e di fare una certa introspezione. Anche per il lettore: in fondo chi scrive queste poesie è il ragazzo di cinquantacinque-sessant’anni fa, e rivivo in questi miei versi la mia infanzia calata nel giorno d’oggi.
Hai menzionato le bellissime illustrazioni: colgo l’occasione per ringraziare l’amico e grande artista, nonché collaboratore da sempre (abbiamo cominciato molti decenni fa) Klavdij Palčič, e Marjan Manček, uno dei due-tre più quotati esponenti nel campo dell’illustrazione per ragazzi.
CS: Passiamo alla poesia per adulti. Elvio Guagnini scrive che c’è sempre un destino ineluttabile che grava sulla tua poesia, una specie di nuvola da cui si vorrebbe e si riesce a vedere uno spiraglio di luce, poiché si apre un varco su ciò che sta sopra. Vorrei che parlassi di questo tema.
MK: Non parlo volentieri di questo: è legato ad una tragedia familiare. In parole crude, ho perso un figlio di vent’anni, e questo certamente mi ha segnato. Mi ha segnato in tal modo che per quasi dieci anni non ho scritto né pubblicato niente, e poi, con grossa difficoltà, cercando di salvare la mia vita e la mia famiglia, ho sentito che certe cose le dovevo esprimere. E questo è quel raggio di luce attraverso un cielo molto cupo, nuvoloso, pieno di tuoni e lampi. Ma nelle poesie parlo di una finestra infranta. E come in una casa, il sole si riflette in tutte le finestre; solo una non riflette la luce perché è rotta; le manca qualcosa e, poiché tutti dobbiamo vivere i nostri giorni fino alla fine, e parlo ai giovani, bisogna lottare. Le tragedie, come vediamo ogni giorno in televisione e leggiamo nelle cronache dei giornali, accadono a tutti e di tutti i tipi, ma ad ognuno ne tocca una in particolare. Ma abbiamo il dovere di sopravvivere anche alla più grossa tragedia proprio perché siamo circondati dagli altri. Purtroppo questa tragedia ha solcato la mia poesia in modo molto profondo, e comunque credo di averla superata, almeno a quanto scrive la critica specie del mio ultimo libro di poesie pubblicato alla fine del 2001, “Il molo del mare del nord”. Scritto con la minuscola, perché è il mare freddo della vita, glaciale, che comunque tocca quasi a tutti. E finché c’è questa volontà nell’uomo di lottare e di sopravvivere, si ha il diritto-dovere di farlo. Potrebbe essere una forte fonte di ispirazione poetica, ma molto amara.