Christian Sinicco (CS): Fucine intervista Claudio Grisancich, poeta triestino che scrive in dialetto. Ti faccio una domanda un po’ banale, in verità sono ironico perché la domanda parte da una riflessione di Delio Tessa, poeta milanese, dialettale, che scrisse nella prefazione di un suo libro che il dialetto non sarebbe mai scomparso.  Pensando al milanese che comunque sopravvive nella scrittura di un grande autore come Franco Loi, per la situazione sociale che conosciamo, cioè quella di una immigrazione massiccia, è scomparso dalla parlata della gente. Dunque cosa si può fare per diffondere il dialetto, quali iniziative possono essere utili in questo senso, pensando alle scuole, pensando alla società?

Claudio Grisancich (CG): Sai, il fatto è questo: per quanto riguarda il dialetto triestino c’è la grande concomitanza di due fattori: è una lingua franca, nata a metà del Settecento, che doveva servire come tramite di comunicazione tra varie etnie, un dialetto base che serviva per la quotidianità. Poi la situazione di Trieste è una situazione di enclave, di cul-de-sac, dove l’immigrazione è meno sentita, dove continua appunto questa lingua franca ad essere presente e ad essere utile. Si parla in dialetto negli atti di ogni giorno, anche negli atti pubblici: quando si va dal professionista ci si esprime sempre in dialetto come il veneto, il veneziano. Per quanto riguarda la salvaguardia del dialetto, per il triestino non c’è nessun problema, non ce ne sono tanti di difensori ma la squadriglia è ben nutrita.
Per le altre lingue minoritarie delle regioni d’Italia, certo, cosa si può fare? Io non sono d’accordo di istituzionalizzare un insegnamento della lingua minoritaria nelle scuole, però ciò che è da fare è questo: nelle famiglie il dialetto è vernacolare, della verna, della famiglia. Per cui parlare in famiglia il dialetto, tenerlo come patrimonio familiare, degli affetti, della memoria familiare.
In più dare maggiore spazio alla voci poetiche che si esprimono in dialetto: delle letture di poeti dialettali, fatte nelle scuole, nelle università, ma non insegnare il dialetto. Far leggere chi scrive in dialetto nelle strutture di formazione e di informazione. Le università, le scuole, le gallerie d’arte, i circoli. Non sono per una lingua insegnata, non si può insegnare il dialetto.

CS: A proposito di gallerie d’arte siamo in Via dell’Annunciata a Milano: abbiamo diversi poeti qui, diverse espressioni poetiche che si accompagnano ai quadri di Paolo Cervi Kervischer… Il tuo rapporto con la pittura, personale, intimo?

Paolo Cervi KervischerCG: Il mio rapporto con la pittura… Proprio prima ne parlavo con una mia amica milanese, Clara Monelli, si parlava dell’opera di Paolo Cervi Kervischer, propositiva secondo me. La pittura, questa specie di finestra sulla creatività: la visione creativa dell’artista può essere propulsiva anche per quanto riguarda la creatività del poeta: apre dei mondi inquietanti, misteriosi, magici che stanno alla base proprio della creatività dell’artista, una forma di ispirazione. Certo, questa poesia astratta, questa poesia baconiana, questa poesia molto moderna, ti dà la possibilità di esprimere qualsiasi cosa. E parlo io che sono un poeta dialettale che non sente il dialetto come una forma di espressione da piccolo orticello, ma con la quale si può dire tutto. Per cui con la pittura di Cervi Kervischer si possono affrontare tutti i temi, tutte le passioni, tutte le emozioni.

CS: Abbiamo avuto in Friuli-Venezia Giulia grandissimi poeti dialettali: Virgilio Giotti, Biagio Marin, i quali hanno dato tantissimo alla letteratura italiana in senso universale e mondiale. Per quale motivo il dialetto nel 1900 è riuscito ad avere questa grandissima dignità letteraria?

CG: Ci si è resi conto che poteva essere la lingua dell’artista, la poesia che pur affidandosi ad uno strumento così povero come il dialetto poteva affrontare qualsiasi tipo di sentimenti. Non si vede per quale motivo il dialetto doveva restare una specie di riserva indiana nella quale coltivare soltanto il macchiettismo, il folklorico, il colorismo. Si poteva invece spaziare in quella che era la grande gamma dei sentimenti umani, di affrontare tutte le grandi domande che si pongono i poeti. Chi siamo, dove andiamo, cosa facciamo… L’hanno iniziato a fare i poeti nel 1900, Virgilio Giotti a Trieste, Biagio Marin a Grado, e pensiamo in Friuli anche all’opera di Pasolini, con le sue poesie a Casarsa ha fatto completamente deflagrare il mondo contadino della poesia friulana così chiusa in certi stereotipi, poesia che è poi volata in alto proprio con Pasolini approdando alle grandi emozioni che avrebbero potuto coinvolgere poeti come Ungaretti, come Saba, come Montale. Per cui non ci sono più paletti, non ci sono più confini: la poesia dialettale povera come strumento linguistico può affrontare qualsiasi problematica.

CS: “Su’l ponte de la roia”, edito con “Il ramo d’oro”, è una bellissima pubblicazione. Puoi leggerci una poesia?

CG: Ti leggo all’inizio, dei settenari: è una storia d’amore, delicatissima, che durò soltanto un mese tantissimi anni fa:

Su’l ponte de la Roia
nissun che caminassi
passava le coriere
restava i nostri passi
sofigai un momento
contro el mureto basso
quei basi iera un nodo
che no’ ne porti via
el vento de la corsa
novembre s’infeltriva
de late iera l’aria
nel giorno che scuriva
l’omo che pedalava
rabioso su per l’erta
voltandose a vardarne
se ga portado a casa
quela sera l’invidia
pe’ i nostri primi basi
ch’incantava la strada