Luciana Fumich (LF): Sono al “Teatro dei Fabbri” di Trieste con Luisa Vermiglio, che è impegnata con le repliche dello spettacolo “Accanto a Tina”, dedicato a Tina Modotti, prodotto dal Teatro Stabile di Trieste per il Quinto Festival della Drammaturgia Contemporanea. Luisa Vermiglio non è soltanto interprete ma anche l’autrice di questo diario biografico, che va dalla partenza di Tina Modotti dal paese d’origine, cioè da Udine, all’America, per arrivare alla sua morte misteriosa in Messico nel 1942. Ora vorrei chiedere a Luisa Vermiglio: come nasce l’idea di dedicare uno spettacolo così difficile, così complesso come Tina Modotti?

Luisa Vermiglio (LV): è nata da una cosa anche molto banale, Tina Modotti è un personaggio che adesso sta diventando molto famoso, ma che dieci anni fa conoscevano in pochi, un personaggio così silenzioso, che quando lo si incontra è sempre un evento, e lo si scopre pian piano. I motivi per cui lo si incontra sono svariati: ho incontrato nel corso di questi anni un sacco di persone che l’hanno conosciuta in modi diversi, o per un libro, o perché qualcuno è appassionato di fotografia, e quindi necessariamente è entrato in contatto con lei conoscendo le sue fotografie… Nel mio caso è successa una cosa un po’ singolare che in parte racconto all’inizio dello spettacolo, anche perché la linea che ho dato allo spettacolo parte un po’ da questo punto, cioè dalla mia identificazione con il personaggio. È successo che un giorno mia sorella — io vivevo a Roma quella volta — mi telefonò — mia sorella vive tuttora a Udine — e mi disse: “Vieni qui perché c’è una bellissima mostra fotografica su un personaggio friulano che ti somiglia”. Non ci sono andata apposta, ma appena ho potuto andare a Udine ho visto questa mostra e al di là dell’immagine, della somiglianza, ho visto le fotografie e mi ritrovo moltissimo nel suo modo di vedere le cose. Come fotografo, come occhio che osserva le cose mi ha veramente sconvolto. E quindi ho iniziato questo percorso di conoscenza, come si potrebbe conoscere una persona viva, che si può incontrare. Ho iniziato con libri, testi, e così via, finché non mi è venuta la voglia di approfondire questa varietà di notizie anche contrastanti, perché è un personaggio che a volte attraversa periodi un po’ ambigui, parte della storia del nostro inizio secolo. Il periodo finale, quello russo, è ancora pieno di misteri, è un personaggio ancora da studiare; tramite il personaggio si attraversa una bella fetta di storia. Quindi mi è cominciata a nascere l’urgenza di raccontarlo. Mi sono detta: tutto sommato sono attrice, perché no? Questo rapporto così personale, così intimo, che ho trovato in questa amica non vivente si è trasformato nel desiderio di farla rivivere, e con varie tappe nell’arco degli anni sono arrivata qua.

LF: E quale aspetto del suo carattere ti ha affascinato di più come donna in questa tua ricerca?

LV: Tutti coloro che ne parlano la descrivono come una passionaria, una protagonista del nostro secolo. L’aspetto che mi ha appassionato di più è proprio il fatto che lei è una non — protagonista. Una donna di grandissime qualità, di grande sensibilità, ma che tutto sommato aveva una sua fragilità che la portava ad essere fortemente femminile nel senso più antico del termine. Perché lei è stata comunista, ha vissuto al pari di uomini, accanto a uomini “grossi” e importanti, però fondamentalmente lei era femminile, aveva una sensibilità e — non voglio dire leggerezza o vacuità — una carnalità femminile, una di quelle cose in cui noi donne spesso ci incontriamo. Anch’io sento questo: lei ha avuto il coraggio di vivere queste cose, di sentirle, di viverle e di realizzarle. Ha avuto una vita che ha vissuto senza sprecare mai, nel male e nel bene. Ha sofferto molto, ma si è anche divertita. Ha vissuto dei periodi rigogliosissimi culturalmente e artisticamente, quindi è un personaggio forte e fragile allo stesso tempo: e quest’ambiguità — da attrice e cantante di Hollywood e nelle compagnie della Little Italy a San Francisco è passata a membro dei Comintern in Russia dopo una quindicina d’anni in Russia. Sono passaggi terribili. Si potrebbe obiettare che non avesse personalità, ma secondo me ha una grande coerenza dentro di sé, e la sua vera forza è la forza di rigenerazione, quella che spesso le donne hanno. Le donne sono capaci di morire e di rinascere. Lei secondo me muore e rinasce tutta la vita finché se ne va definitivamente — anche in giovane età, purtroppo, perché è morta a quarantasei anni — e con una vita che può essere d’esempio.

LF: Cosa ha portato di più alla tua idea di base la collaborazione di un artista sensibile come Eugenio Allegri?

LV: Meraviglie. Ci sono state varie tappe: ad esempio ho studiato il percorso friulano di Tina Modotti. Prima di partire — è arrivata in America a diciassette anni, nel 1913 — aveva lavorato in una filanda in Friuli. Con il gruppo del Centro Universitario Teatrale di Udine ho studiato l’atmosfera delle filande. Abbiamo realizzato due work in progress in due anni differenti — molto interessanti — che mi hanno aiutato a entrare in questo spirito. Poi l’anno scorso c’è stato un primo approccio con il Quarto Festival della Drammaturgia Contemporanea. La storia era più o meno la stessa ma il tutto era più lineare, più narrato, mi identificavo nel personaggio ma ero più esterna, raccontavo. Eugenio Allegri, che ha preso in mano il video dello spettacolo dell’anno scorso, mi ha detto: “Ma se tutta questa cosa nasce da un discorso di identificazione, perché non hai il coraggio di essere lei?”. Forse aveva ragione, e partendo da questo punto di vista mi ha aiutato a lavorare meglio sulla drammaturgia, soprattutto sul rapporto con la realizzazione scenica, e rivisitando tutto il percorso narrativo, non teatrale. Cambio spesso costume, mentre l’anno scorso avevo sempre lo stesso vestito… Per intenderci, cambio spesso costume, entro nei momenti che narro, e questo ha dato una forza allo spettacolo, lo ha cambiato proprio. Tutta un’altra forza, un’altra immagine. A me è piaciuto molto farlo, e spero che piaccia agli altri vederlo.