Mara Blasetti, figlia dell’artista Alessandro, che ha presentato il libro, Alessandro Blasetti 1900-2000, in occasione del centenario della nascita del regista, in collaborazione con la Fondazione Blasetti.

Martina Palaskov (MP): Signora Blasetti, lei non è intervenuta solo in qualità di figlia, ma anche come collaboratrice, infatti ha fornito molti dati per infarcire il libro di aneddoti personali.

Mara Blasetti (MB): A parte le curiosità personali, anche gran parte del materiale fotografico è stato recuperato dall’archivio di mio padre. Non si tratta solo di foto personali di papà, ma anche foto dei set e dei film. Ringrazio tutti i fotografi che mi hanno permesso di pubblicare il materiale, anche perché il libro, ricordo, non è a scopo di lucro, per cui il materiale raccolto è in gran parte personale o di amici. Molte pagine di giornali, che lui raccoglieva, immagini, cosette che scriveva lui. Il libro è infarcito di tanta documentazione personale.

MP: Lei è stata tante volte presente sul set con suo padre: che cosa ricorda di lui?

MB: Quand’ero piccola mi portava sempre con sé. Io dai cinque anni, fino a che non mi sono sposata, sono stata tantissimo sul set con papà. Ho lavorato con lui per dieci anni, e posso dire che la creatività e le maniere che usava gli permettevano di far fare agli attori quello che lui intendeva. Il modo di discutere, di analizzare di recitare erano caratteristiche fondamentali del suo lavoro. Tante volte recitava lui la parte per far vedere come avrebbe voluto che venisse interpretata, quindi risvegliava nell’attore tutte le capacità nascoste che possedeva. I movimenti di macchina, la creatività con cui affrontava questo lavoro. Lui non ha mai messo la macchina da presa su un piedistallo… inventava molto; ha inventato macchinari, una piccola gru, un carrello. Si immagini che lui, ancora prima di fare il regista nel 1927, ha brevettato una macchina da presa che si metteva sulla testa. Quando noi parliamo della steadycam americana come un’invenzione, dovremmo pensare a papà che nel ’27, con l’ingegnere Cauda, che era un amico e un collaboratore nonché collaboratore alla rivista, hanno inventato la macchina che si metteva sulla testa dell’operatore per poter simulare l’occhio umano che vive la vicenda in prima persona. Papà è sempre stato un innovatore. Ripeto, sul set era amato moltissimo, da tutti, anche dai macchinisti, perché per seguire alla lettera le sue indicazioni bisognava avere orecchio, occhio e poesia.

MP: Come lavorava in particolare sulla regia, si procurava uno storyboard…?

MB: Preparava sempre le scene in anticipo, a casa. Lui ce le leggeva e già si vedeva l’azione. Le leggeva in maniera tale che la visione della scena era molto chiara a tutti… tant’è vero che una volta mio marito gli disse, dopo aver visto una scena girata: “dottore, mi piaceva di più come l’aveva raccontata lei”.

Poi in scena, ricordo, che si provava dalle otto della mattina fino alle cinque del pomeriggio la stessa scena. Lui non usava fare il solito dialogo campo, contro campo. Le sequenze erano lunghe, quindi ci si soffermava molto. Si provava molto; quando poi finalmente si arrivava al ciak, la giornata volgeva al termine. Siccome per una scena utilizzava tante inquadrature, ci lavorava molto; le attaccava poi tutte insieme senza staccare la macchina da presa dal soggetto a dall’azione. Era un continuo lavorio tra lui, il capo macchinista, l’operatore di macchina, che dovevano essere di grande bravura e sensibilità, perché occorreva spostare la macchina anche di un millimetro, per renderla perfetta, come andava a lui. Si metteva dietro alla macchina, provava le posizioni, poi chiamava l’operatore e gli spiegava le sue intenzioni. Quindi insegnava anche girando. Per un solo ciak le posizioni della macchina potevano anche essere ventidue. Si sentivano tutti partecipi e artisti insieme a lui.

MP: Era molto esigente, si arrabbiava?

MB: Era molto esigente, non ammetteva distrazioni, pretendeva il silenzio, però non era autoritario, era un debole. La gente era molto contenta di fare quello che lui voleva.

MP: Egli viene spesso chiamato “Il padre del cinema italiano”…

MB: è imbarazzante che lo chiediate a me. Per lavorare sul libro ho dovuto riguardare tanto materiale e tante cose che sono state scritte su di lui e che lui ha scritto. Posso affermare che lui è stato veramente il padre del cinema italiano. Ha incominciato a fare cinema negli anni venti, ha poi scritto molto di cinema, e ha affrontato una battaglia feroce perché all’epoca ai produttori del cinema italiano non gliene importava niente. I soldi erano importanti e si puntava su produzioni statunitensi, per cui il nostro cinema non esisteva più. Lui ha scritto una lettera ferocissima ai banchieri d’Italia…battaglie, ma non solo. Con le riviste che pubblicava dal 1926 fino al 1930, ha lottato per sostenere e promuovere una scuola di cinema, ha fatto dei concorsi per scenografi; si figuri, Goffredo Alessandrini è stato uno fra quelli che ha partecipato a uno di questi concorsi per scenografi. Egli è poi diventato assistente di papà. Ha lavorato molto perché si istituissero i cineclub e le cineteche. Ha contribuito un po’ per tutto il mondo cinematografico. Ha lottato perché la scuola di cinema diventasse centro sperimentale, ha lottato perché Cinecittà si facesse come bisognava fare; il famoso teatro cinque di cui si parla sempre, lo ha fatto costruire lui, sulle sue misure e poi ci ha girato delle scene spettacolari; ci ha costruito il bosco della Corona di Ferro (1941), la caduta dei massi, l’apertura del terreno, alla fine del film. La spiaggia dove in Fabiola (1949) fanno l’amore per la prima volta Vidal e la Morgan è stata costruita a Cinecittà. In ognuno dei suoi film c’è un’innovazione. Se c’era una crisi, egli inventava un altro filone che poi tutti finivano per seguire; la commedia all’italiana, il film neorealista, il film a episodi, il film documentario tipo Europa di Notte, film tratti dalla letteratura…