Fucine Mute (FM): Gillo Pontecorvo sarà a Genova, in occasione del G8, assieme ad alcuni dei maggiori cineasti del nostro paese. Che significato ha questo ritorno dei massimi esponenti del cinema italiano sulle scene di un avvenimento politico di tale portata?
Gillo Pontecorvo (GP): È un segnale importante, che rilancia l’idea di partecipare e di testimoniare la realtà, di fronte a una disinformazione dilagante nel mondo e in Italia specialmente — dove adesso il pericolo è anche più forte. È importante non soltanto come fatto in sé, ma perché segna il ritorno — dopo anni di pigrizia mentale da parte degli intellettuali italiani in generale, e in particolare dei cinematografari, che in queste occasioni sono sempre stati una specie di punta di diamante — a una pratica che sembrava ormai dimenticata. Mi riferisco alla partecipazione e all’interesse nei confronti di una pratica di vigilanza. Si tratta di una funzione decisiva tra quelle che competono agli intellettuali, una funzione che gli intellettuali italiani avevano svolto per anni e anni in maniera considerevolissima. Questo accadeva fino a una ventina di anni fa: poi si sono lasciati coinvolgere da quello stesso degrado e disinteresse che innegabilmente ha colpito l’insieme della popolazione rispetto ai problemi del vivere associato. In fondo, la politica non è altro che occuparsi del come si vive insieme.
FM: A Genova sarà di nuovo dietro alla macchina da presa?
GP: Alcuni di noi non sono nuovi a questo tipo di riprese, che magari avevano praticato in gioventù. Io per esempio giravo moltissimo con la macchina a mano, con la Arriflex. Parlo del periodo in cui in Italia c’era, per così dire, poca democrazia. Quando si girava durante le manifestazioni c’era soprattutto da difendere la macchina da presa: se nel trambusto cadeva per terra, noi che eravamo senza una lira e che la cinepresa l’avevamo affittata eravamo rovinati. Avremmo preferito qualche botta in testa piuttosto che un’ammaccatura sulla macchina da presa… Per quanto riguarda Genova, dobbiamo ancora decidere chi si occuperà delle riprese, chi di scrivere, chi di fare altre cose.
Io credo fondamentalmente che questa possa essere un’occasione straordinaria per fare un film di forte appeal nei confronti del pubblico. A Genova ci concentreremo sulle espressioni, gli umori, le frasi dei manifestanti, le dichiarazioni dei personaggi che andremo a intervistare. Ma se partendo dai fatti di Genova riusciremo poi a parlare dei problemi drammatici del mondo di oggi, inserendo nel filmato dei frammenti di vita autentica nel mondo contemporaneo, ecco che il tutto si trasformerà in un’occasione unica per fare davvero un film insolito. Il lavoro definitivo si configurerà solamente in fase di montaggio. Poi vedremo: a Genova saremo in trenta, vedremo come ci divideremo effettivamente il lavoro.
FM: Uno dei suoi ultimi lavori, girato per la televisione e trasmesso su “Mixer” alcuni anni fa, era una sorta di documentario girato sulle scene del suo capolavoro, “La Battaglia di Algeri”.
GP: In realtà “Mixer” mi aveva chiesto di tornare in Algeria per un viaggio sul “luogo del delitto”, venticinque dopo aver realizzato “La battaglia di Algeri”, questa volta più come attore che come regista. Praticamente, del girato si è occupato mio figlio, che fa il direttore della fotografia e attualmente sta per diventare a sua volta regista. Ci siamo divertiti molto insieme. Non avevo mai lavorato con mio figlio, e devo dire che di quell’esperienza conservo dei ricordi molto belli. Ci siamo divertiti moltissimo nel documentare i luoghi dove in gioventù avevo girato questo film. Che a sua volta era — come è noto — un finto documentario: tutto era ricostruito, tutto, in ogni singolo fotogramma. Ma forse la gente non sa che per far sembrare una scena come un frammento rubato alla realtà, ci vogliono molta più cura ed attenzione di quanto non occorra per creare una scena di pura fiction.
FM: Lei è stato per cinque anni alla guida della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Ora, qui a Trieste, è ospite di un festival dedicato al cortometraggio…
GP: Dei miei cinque anni veneziani, la cosa di cui sono più contento è di avere riportato i giovani alla Mostra. Il primo anno con uno sforzo pazzesco: mi ero messo d’accordo con il Ministro della Pubblica Istruzione per lanciare un concorso dedicato ai temi dei giovani sul cinema, e i duecento migliori venivano ospitati a Venezia. È stato un fatto che ha colpito molto i miei colleghi registi, in particolare Robert Altman. La presenza dei giovani rappresentava un fatto unico all’interno del panorama dei festival.
Per quanto riguarda il cortometraggio, nell’ambiente cinematografico, molti di noi credono che il corto sia uno strumento decisivo per creare una nuova generazione di registi. Anche a Venezia avevo cercato di rilanciare l’interesse verso i corti. Nella formazione di un regista, il cortometraggio rappresenta un po’ quello che un tempo era il documentario: attraverso cui si sono formati tutti i registi della mia generazione, Antonioni, Zurlini, io stesso. La legislazione italiana ha smesso di incentivare la produzione di cinema documentario. Dall’altro lato, Veltroni aveva recentemente portato dalla ridicola cifra di venti a cento milioni il contributo governativo per il cortometraggio. Adesso si tratta di creare degli accordi che permettano di distribuire i corti nelle sale, e di farli vedere al pubblico.
FM: Un altro suo chiodo fisso è la promozione del cinema europeo, e in particolare di quello dei paesi dell’area latina.
GP: Proprio a Venezia avevo cercato di promuovere l’idea di rilanciare come un’area cinematografica quella rappresentata dai paesi latini: cioè, fondamentalmente, Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Romania. Ma l’idea era caduta nella freddezza generale, e poi è rimasta per anni in una specie di limbo. Ora finalmente il progetto si sta concretizzando, grazie all’intervento di un produttore cinematografico, Sandro Silvestri, che ha creduto assieme a me a quest’idea. Il progetto ha ottenuto l’appoggio dei governi dei paesi latini europei, e anche di quelli latino americani. L’annuncio ufficiale dell’iniziativa sarà dato durante la prossima edizione della Mostra di Venezia: Jack Lang sarà il presidente onorario di questo istituto internazionale per la promozione della cinematografia dei paesi latini.
Ma in questo lavoro, i festival hanno soltanto le funzioni di avamposto, di vetrina: il lavoro sostanziale si svolge su un piano concreto, fatto di logiche industriali e di accordi. Si tratta di un progetto a lungo termine, che prevede di creare uno spazio cinematografico latino, una zona di libero scambio, di fittissime intese non solo tra i paesi europei, ma anche con gli Stati dell’America Latina; in più ci sono i trentotto milioni di ibero-parlanti dell’America del Nord… Si tratta, quindi, di un occasione importante per difendere concretamente il cinema europeo, e per uscire finalmente dalla sterile politica fatta di lamenti e di convegni inutili contro lo strapotere del cinema americano. Ma ci vorranno anni di lavoro, a tutti i livelli.