A metà degli anni 30 la casa Warner Bros. First National, sede privilegiata dei famosi quattro fratelli del cinema, è una delle più attive di Hollywood e anche una delle più specializzate.
Tre generi soprattutto: il grande Musical con le “Gold Diggers” di Berkeley in coreografie mai viste prima, poi il “noir” duro e coinvolgente col suo Pericolo Pubblico in compagnia con il Piccolo Cesare e l’Evaso. E, terzo genere, l’avventuroso, protagonista assoluto Errol Flynn con il Capitano Blood, Robin Hood e i Seicento alla carica…
Va anche ricordato come la Warner avesse aperto le porte al “sonoro” fin dal 1927-28 con il suo Jazz Singer lacrimoso e sorprendente, dove Al Jolson parlava e cantava, il viso dipinto di nero, con i suoi dolori di figlio disubbidiente del rabbino.
E ora dobbiamo spostarci per un po’ nel campo del teatro. Nel settembre del 1934, davanti ai venticinquemila spettatori dell'”Hollywood Bowl”, enorme conca-arena sulle colline di Los Angeles, c’è un grande avvenimento: Max Reinhardt, famoso regista teatrale tedesco inviso ai nazisti e trasferitosi prima in Austria e poi in America, mette in scena, alla grande, The Midsummer Night’s Dream di Shakespeare, in una edizione che impressiona il pubblico americano.
“Il Sogno” è stato sempre l’opera prediletta da Reinhardt, una felice combinazione fantastica tra situazioni e caratteri in contrasto, con una ricchissima possibilità spettacolare. Lo ha già rappresentato in giro per l’Europa, e vogliamo almeno ricordare una sua edizione fiorentina, a Boboli nel ’33.
Shakespeare ci racconta qui i vagabondaggi un po’ confusi e pieni di malintesi di due coppie d’innamorati male assortiti, e poi d’una compagnia improvvisata di istrioni incompetenti, tutti dispersi in un bosco incantato nei pressi di Atene. Irritati per questa intrusione, gli spiriti della foresta, con fate e folletti in massa, creano continue difficoltà ai poveri mortali fino a che, dopo una generale riconciliazione, fanno tutti ritorno alla corte ateniese per festeggiare le nozze di Teseo con Ippolita, regina delle Amazzoni, e per applaudire la tragicomica recita dei buffi dilettanti. Neanche a dirlo, questo “happy end” comprende anche un riordino delle due coppie di giovani innamorati.
Il grande successo di Los Angeles e una felice tournée che tocca San Francisco, Chicago e St. Louis, non sfugge alla casa Warner, che decide per una immediata trasposizione del “Sogno” sugli schermi, sotto l’organizzazione del produttore Hal Wallis e la regia di William Dieterle.
Questo regista, tedesco pure lui e già collaboratore di Reinhardt in Germania, aveva lavorato in patria come attore per diversi anni, dedicandosi poi alla regia. Nel 1930 era fuggito, con la moglie, negli Stati Uniti a causa di un dissesto economico, dando inizio ad una brillante e proficua carriera alla direzione di molti film di successo, come per esempio le grandi biografie della Warner (Pasteur, Zola, Juarez e Massimiliano).
Ritrovatosi con il grande Reinhardt alla preparazione del “Sogno” per il cinema, gli fu subito di grande aiuto, data la scarsa conoscenza del Maestro sulle nuove tecniche del sonoro, e cercando di perfezionare il suo impossibile inglese che gli creava non poche difficoltà sul set.
La trama è nota, ma sarà utile un breve riassunto da riferire poi alla composizione del cast.
Teseo, duca di Atene, sta per sposarsi solennemente con Ippolita, regina delle Amazzoni. Mentre fervono i preparativi, è in atto un pasticcio d’amore fra due coppie di giovani nobili: Lisandro e Demetrio sono entrambi innamorati di Ermia, figlia del cortigiano Egeo. Ma questa Ermia è innamorata di Lisandro e respinge sdegnosamente Demetrio (del quale, tanto per complicare le cose, è innamorata un’altra fanciulla, Elena). Le leggi di Atene sono severe: se Ermia non sposerà Demetrio, al quale è stata promessa dal padre, verrà condannata a morire o a rinchiudersi per sempre in convento.
Il buon duca Teseo cerca di convincerla, ma lei è irremovibile: o l’amato o la morte. Rimane una soluzione soltanto: una fuga notturna nella vicina foresta per i due infelici innamorati.
Nella foresta, intanto, si stanno svolgendo le prove d’una recita in omaggio al Duca e alla sua sposa, organizzata da un inverosimile gruppo di attori improvvisati: un carpentiere, un calderaio, un tessitore, un sarto, e qualche altro. Si rappresenterà una cosa tragica, “A most lamentable comedy” su un amore infelice e contrastato nella Grecia antica. Vengono assegnati i ruoli: sono tutti uomini, e uno di loro sarà la dolce e angosciata Tisbe…
A questo punto interviene la magia. Si aggira nel bosco il folletto Puck che viene incaricato da Oberon, re degli elfi, di fare qualcosa per quei quattro innamorati infelici. Ma Puck è un bel pasticcione: spreme dei petali stregati sul soggetto sbagliato e coinvolge anche Titania, regina delle fate e degli elfi, facendola innamorare di Bottom, uno degli pseudo-attori che, in seguito alla stregoneria, si ritrova una testa d’asino sulle spalle.
La confusione è al massimo: adesso Lisandro ama Elena invece di Ermia che, poverina, non capisce più niente, mentre Demetrio vuole sfidare a duello l’inatteso rivale. Ma Oberon ordina a Puck di rimediare ai suoi errori: questi vi riesce a fatica, ma per fortuna tutto ritorna a posto. Teseo e Ippolita celebrano le loro nozze sontuose, i commedianti recitano la loro risibile tragedia insieme al bravo Bottom non più asino, e i quattro innamorati vanno verso la felicità.
Il folletto Puck chiede al pubblico di applaudire e perdonare: “If we Shadows have offended…”, se noi ombre abbiamo annoiato, fate conto che è stato solo un sogno…
A Midsummer Night’s Dream si va realizzando: con Dieterle, Reinhardt e tutti gli altri.
La lavorazione procede. Non sono pochi gli studiosi di cinema che si meravigliano per la presenza di un’opera come questa negli “studios” dei Warner a Burbank, impegnati quasi sempre in film seri e realistici: unica eccezione i grandi Musical.
Jack Warner dichiara alla stampa: “Siamo convinti che i drammi di Shakespeare abbiano il loro posto sullo schermo, e consideriamo l’arrivo del Professor Reinhardt come un’importante conquista”.
I produttori delle altre grandi Case quasi non credono alle loro orecchie.
L’impresa è ambiziosa e spettacolare. 108 ballerini, sotto la direzione di Bronislava Nijinska (sorella di Nijinski e direttrice dei balletti dell’Opéra di Parigi), formano il complesso turbolento degli esseri fatati che animano il bosco al mattino per scomparire sotto il magico manto di Oberon dopo il tramonto. Questo bosco è il grande protagonista della scena: i tecnici lo realizzano così fitto e reale che la luce dei proiettori passa con difficoltà attraverso i rami, da cui dei problemi di sfoltimento e di illuminazione. E per rendere lo “sfumato” in cui danzano la creature della notte sotto un raggio di luna, sì consumano chilometri di “cellophane”.
Il film ha un’eccellente colonna sonora, derivata dalla partitura di Mendelssohn e adattata per il cinema da Erich Korngold, allievo di Mahler e Puccini, già collaboratore di Reinhardt anche lui, fatto venire apposta da Vienna. Diverrà il numero uno per la musica della casa Warner.
Uno sguardo agli attori, provenienti in buona parte dalla stessa Warner.
Dopo il successo del “Sogno” nell’arena dell'”Hollywood Bowl” è Olivia de Havilland, diciannove anni, bella e delicata, la più richiesta, e si rivela perfetta per la parte di Ermia: è al suo primo film.
Un’altra giovane attrice, Jean Muir, fa la parte di Elena, involontaria rivale in amore della sua amica Ermia. Per Lisandro viene scelto Dick Powell, divo dei tanti film musicali Warner, sicuro e melodioso interprete delle canzoni con Ruby Keeler (ricordate Honeymoon Hotel e On the Waterfall?). Aníta Louise è Titania, Victor Jory è Oberon, mentre Ian Hunter come Teseo è l’unico del gruppo che ha una certa esperienza di teatro.
Il gruppo degli attori improvvisati è un autentico “all Warner”: Frank Mac Hugh e Hugh Herbert sono due volti conosciuti, sempre presenti nelle riviste musicali degli anni 30, nei ruoli di impresari o di direttori dei corpi di ballo. Poi c’è Joe E. Brown con le sue fattezze di pagliaccio da circo, nella parte di una sfortunata Tisbe che muore per amore, secondo la “Tragedia” dei commedianti. Molti anni dopo, Brown dirà, in A qualcuno piace caldo al malcapitato Jack Lemmon, che “Nessuno è perfetto”, battuta immortale del 1959: anche lì un travestimento da donna, ma per il partner.
Poi c’è anche James Cagney, reduce da ruoli di gangster spietato (Public Enemy, 1931), ma anche ballerino e cantante in Shanghai Lil uno di tanti numeri delle “Gold Diggers”. Qui nel “Sogno” fa un rozzo tessitore-attore che si dichiara capace di qualunque ruolo, ma che finisce con la testa d’asino per uno dei tanti incantesimi andati storti, follemente amato da Titania, stravolta anche lei dal solito succo magico sbagliato.
La parte essenziale di Puck, folletto distratto e dispettoso che ne combina di tutti i colori, è di Mickey Rooney, un quattordicenne che avrà una lunga carriera. Il suo compito è di creare confusione, sbagliando regolarmente gli incantesimi che Oberon gli ha incautamente affidato. Onnipresente e querulo, fa risuonare ovunque le sue risate spaccatimpani che, alla lunga, stufano anche un po’. La sua carriera futura è piena di meritati successi: forse lo ricordate con Judy Garland nei Babes on Broadway oppure in Arms, reclutato dalla Metro Goldwin.
Un’ultima segnalazione: c’è un bambino adottato dalla capricciosa Titania, che ne è gelosissima e se lo porta dappertutto. È Kenneth Anger, futuro cineasta d’avanguardia e autore degli scandalosi volumi di “Hollywood Babilonia”.
Un film di Reinhardt con la collaborazione di Deterle. O viceversa?
Le vicende del “Professore” (1873-1943) e il suo impegno per questo “Sogno” vi sono raccontate da William Dieterle nel suo saggio “Max Reinhardt in Hollywood” uscito nel 1973, per il centenario della nascita.
Vengono riportati molti particolari sulla complessa lavorazione, e va subito precisato che la sceneggiatura era opera di due specialisti della Warner, Kenyon e McCall. Racconta Dieterle: “Io studiavo la sceneggiatura man mano che entrava nel campo delle mie responsabilità. Dovevo essere preparato, e cercavo sempre di stare attento che Reinhardt non deviasse dal suo concetto iniziale: la sua fantasia era così viva che gli costava fatica limitarsi. Era indispensabile che la pellicola andasse poco oltre le due ore, e Reinhardt voleva ad ogni costo essere fedele a Shakespeare, aggiungendo sempre nuove scene. Erano anche idee brillanti, ma la somma di Shakespeare con le infiorature di Max avrebbe generato un film interminabile…”
La tecnica cinematografica inibiva alquanto il Maestro: faceva provare a lungo tutti gli attori e finalmente, quando si sentiva sicuro, cedeva il passo al paziente collaboratore più giovane.
Gusti Adler, fedele segretaria e biografa di Reinhardt, conferma: “Non riuscì mai a superare la sua tensione davanti alla macchina da presa, e si rilassava soltanto quando gli presentavano una certa scena come cinematograficamente indispensabile. E poi magari si indispettiva perché si allontanava troppo dal tema”.
Il figlio di Reinhardt, Gottfried, conferma: “Questa pellicola era certamente un compromesso fra punti di vista differenti e non una autentica opera di mio padre. Del resto, era stato Dieterle a convincere quelli della Warner a fare il film: la relazione fra i due fu sempre cordiale, ma si trattava comunque di una unione sbagliata”.
In ogni modo, molte cose vennero lasciate al diretto controllo del Professore, come per esempio la struttura del palazzo di Atene, con le sue architetture sospese fra il barocco e Gaudì, o anche i costumi un po’ del 1600 e un po’ greco-romani…
Ma si può anche concludere, a mio avviso, che queste incongruenze di stile sono in fondo un elemento positivo, molto utile per convalidare l’atmosfera irreale e fiabesca di tutto il film.
Finita la lavorazione, Reinhardt regalò a Dieterle un suo ritratto con questa dedica: “A William, mio allievo di una volta, mio maestro di oggi”. Il che, come capolavoro di “fair play”, è veramente notevole.
E la casa produttrice, come vedeva queste vicende? Jack Warner il più impegnato dei “Four Brothers”, aveva inizialmente taciuto in tutta la pubblicità (annunci, manifesti, articoli, radio) il nome di Dieterle.
Poi, ravveduto, continuò sempre a definirlo il “co-direttore”, inviandogli il produttore in capo, Hal Wallis, ad esprimergli ammirazione e riconoscenza.
Qualche riflessione critica e un’appendice.
Il film fu considerato uno degli avvenimenti del 1935. Nel mese di ottobre si ebbero le “prime” contemporaneamente a Londra, Parigi Vienna e Sydney. Oltre, ovviamente, a quelle americane. In Italia giunse poco tempo dopo, con un buon doppiaggio.
La critica, inizialmente disorientata dalla grande campagna pubblicitaria, si divise poi tra i favorevoli e i perplessi. Il successo di pubblico fu soddisfacente, ma inferiore all’aspettativa.
Graham Greene da Londra, sullo “Spectator” del 18 ottobre, in un articolo dove attribuisce la regia a Reinhardt, ignorando Dieterle, dice: “Ci sono tante ronde di piccole Shirley Temple che saltellano in solidi ranghi teutonici, ma che importa, il film mi è molto piaciuto”. E ironizza sui critici impegnatissimi nel discutere se Shakespeare avrebbe più o meno approvato il film, concludendo che le sequenze “stregate” sono le migliori per lui.
Senza saperlo, Greene stava elogiando il lavoro di Dieterle.
Questo “Sogno” è un film particolare e anche discontinuo: le scene di tenerezza fra i quattro innamorati si alternano con le sguaiate esibizioni dei commedianti, mentre il mondo dell’Irreale, con Oberon e Titania e il loro codazzo di fate, elfi e gnomi, comunica con quello della Realtà quasi esclusivamente per la mediazione dell’ineffabile e fastidioso Puck. Però tutto ci appare, se teniamo ben presente che assistiamo ad una fiaba, molto più valido e funzionale. E la felice orchestrazione di Korngold sulle musiche di Mendelssohn ci dà il suo contributo quando, ad esempio, fa risuonare solennemente la “Marcia nuziale” fra le colonne della reggia di Atene, ma anche quando accompagna il pagliaccesco incedere di Piramo e Tisbe, sposi surreali della farsa-tragedia.
In più, come già detto, gli ambienti regali fastosi e pesanti sottolineano ottimamente questo inno all’inverosimile, con quel linguaggio (e sia gloria a Shakespeare) volutamente aulico e pomposo per i potenti di Atene (Teseo e Ippolita), ma anche per le grandi ombre del regno dell’Invisibile (Oberon e Titania). E infine, ci sono le piccole creature terrestri o alate che si spostano veloci ai cenni del loro Sovrano dal manto nero: in lunghe teorie fra le nebbie o al chiaro di luna, oppure in piccoli gruppi ordinati, o ancora disegnando delle spirali nel cielo, mentre la musica sottolinea, anch’essa tenebrosa, le loro evoluzioni.
E qui, abbiano pazienza i bravi lettori: sarà per i volti ben noti degli attori, sarà per lo stile Warner, sempre sospeso fra il magnifico e il popolare, o ancora per la coincidenza cronologica degli anni ’30: io mi sono trovato in certi momenti (e prometto di dirlo per l’ultima volta) come a quasi udire i motivi musicali di Harry Warren per i sospiri canori di Dick Powell con Ruby Keeler, sullo sfondo delle coreografie di Busby Berkeley. Turpe sacrilegio o semplice infatuazione? Fate pure voi.
Del resto Franco La Polla, docente all’Università di Bologna, col quale non perdo mai l’occasione di avere qualche utile e cordiale colloquio sul Musical, mi ha appena informato su un articolo del giornalista Charmion von Wiegand nel quale si diceva piuttosto esplicitamente, a proposito del “Sogno” di Reinhardt-Dieterle, che “siamo di fronte a Shakespeare ridotto a Ziegfeld Follies…”. A prescindere da una certa crudezza d’enunciazione del giudizio, posso constatare che il richiamo è stato visto, più o meno benevolmente, in parecchie occasioni.
Breve aggiunta
Ho già parlato dell’abbondanza di versioni cinematografiche di quest’opera di Shakespeare, pressoché impossibili da citarsi.
Merita fare eccezione per quella che è probabilmente l’ultima, del 1999, diretta da Michael Hoffman, con Kevin Kline (Bottom), Michelle Pfeiffer (Titania), Rupert Everett (Oberon) e Sophie Marceau (Ippolita).
E infine, sempre a proposito di eccezioni, due parole, che mi sembrano necessarie, su una versione teatrale alla quale ho avuto la fortuna di assistere: quella diretta da Peter Brook a Milano negli anni ’70 con la Royal Shakespeare Company. Uno spettacolo dinamico, denso di invenzioni e improvvisazioni, pieno di libertà creativa anche nella definizione dei personaggi: il mondo delle fate, per esempio, era quello del circo, con Bottom come clown e Puck sul trapezio, mentre Titania cadeva vittima di un sogno erotico con Bottom-asino per poi subito rinnegarlo al risveglio, con disgusto. E anche i languidi sospiri delle due coppie di innamorati erano pateticamente ridicoli. Sorprendente la versione scenica che ci portava verso le esperienze d’avanguardia di quegli anni, ma anche ammirevole la partecipazione di tutti gli attori ad un ritmo senza respiro.
Di questo “Sogno” sul palcoscenico si parla ancora oggi con ammirazione.