Martina Palaskov (MP): Per il suo cortometraggio, Gli impiccati, lei si è ispirato ad un’installazione artistica. Per quale motivo ha voluto girare questo film e qual è il nome dell’artista dell’opera cui lei si è ispirato?

Petér Gothàr (PG): Lo scultore si chiama Andrá Böröcz, vive a New York da dieci anni. Sarò breve…

Nel luogo in cui vive, hanno reciso un enorme albero. Lo scultore ha utilizzato i grossi rami dell’albero per scolpire la sua opera. Con la collaborazione di un suo amico musicista, (László Dés’s, N.d.R.), che gli ha fatto notare come i pezzi di legno possono anche fungere da strumenti musicali, tamburi, ha deciso di fare un’installazione.

L’installazione si trova a Budapest, al Museo delle belle Arti. Il compositore, colui che ha scritto il tema dell’opera, abita a Budapest; compone musica jazz, soprattutto, ma anche musica leggera. La musica dell’installazione è stata concepita per la scultura. Si tratta di una musica molto particolare e suggestiva. Il complesso musicale che interpreta la musica si chiama Amadinda. Si tratta di cinque persone che suonano i tamburi. Non si tratta di musica latino-americana, ma europea. Una musica direi strana, speciale. La cantante è una ragazza zingara, la quale canta senza servirsi di testi, come si vede nel corto.

Ritengo che la scultura sia interessante, ha fatto parlare molto di sé negli ambienti culturali ed artistici. Non serve sottolineare quante persone sono state impiccate nel corso della storia. Quando mi hanno chiesto di girare un film che si rifacesse all’opera, ho cercato di evitare i modi convenzionali di fare cinema. Avevo l’intenzione di non fare nulla di più esauriente, poiché credo che l’installazione sia riuscita benissimo allo scultore e al musicista. Ho pensato di associare l’opera ad alcuni fra i luoghi più simbolici degli ultimi quarant’anni poiché entrambi gli artisti hanno quarant’anni.

Il film potrebbe essere un bell’esempio di come la teoria e la pratica si sviluppino bene insieme.

MP: Il film inquadra molte vedute e scorci di New York. Ci sono lunghe panoramiche che si focalizzano sulla bandiera americana. Il significato può risiedere nel fatto di voler evidenziare la società americana e la presenza implicita della Pena di Morte?

PG: Non avevo intenzione di fare ciò. La pena di morte legalmente in America non esiste (ci sarebbe da discutere molto su quest’affermazione N.d.R.). Le esecuzioni sono fatte sporadicamente in alcuni stati. Non volevo evidenziare ciò. Lo scultore ha visto un qualcosa di speciale nella scultura e nel pezzo di legno, che va oltre la Storia Contemporanea.

Questi rami così appesi che si riferiscono all’impiccagione, mi fanno pensare a qualcosa di storico.

MP: Qual è il messaggio che il cortometraggio vuole divulgare? Che tipo di atteggiamento si deve prendere nei confronti della morte?

PG: Sia il cinema che le altre arti sono dei moduli espressivi molto ricchi sui quali anche i discorsi più lunghi e ricchi non bastano mai. Noi stessi ne stiamo parlando da venti minuti. Le possibilità di espressione sono molteplici.

Quindi ritengo che sia riduttivo riportare il mio film e la natura dell’installazione ad un messaggio concreto. L’importante per me è suscitare emozioni e non colpire con un messaggio concreto. C’è una differenza tra il mio film e i film che raccontano una storia. Nel mio film ci sono delle materie, come il legno, come la materia delle immagini e quella musicale.

MP: Crede che il suo film possa essere proposto come un’installazione video ad una mostra d’Arte Contemporanea?

PG: Certo, infatti, al Museo delle Belle Arti di Budapest tutte e tre le opere possono essere viste dal pubblico: la scultura, la musica, e il mio video.