Il ritorno di Quetzalcoatl

Un potente uccello d’acciaio, vola, mettendo letteralmente in frigo l’anima dei passeggeri trattenuti dentro i suoi intestini.

Per dieci ore circa.

Un aereo attraversa l’oceano ad una velocità talmente esorbitante da non permetterti soltanto di concepire, ma addirittura il più semplice vedere, l’oceano che scorre là sotto. Quando capita di scorgerlo da un oblò, pare di guardare il dorso grigio di un enorme elefante che si sorvoli a cavalcioni di una zanzara.

Vi è un’esagerata disparità nel rapporto spazio/tempo d’un volo transoceanico per permettere ai passeggeri di rendersi davvero conto di cosa stiano facendo…

Volare sopra un oceano.

La velocità della tecnologia riduce ai minimi termini la riflessione umana, divinamente lenta.

Uno — chiaro — sa benissimo dov’è diretto e lo fa “bruciando tempo prezioso”, quello che non gli sarà mai rivelato, però, è la conoscenza che implica il concetto d’oceano. Di là della parola non saprà mai cosasignifichi oceano in realtà, cosa sia il suo spazio, e “brucerà l’intero tempo della sua vita” senza saperlo mai.

L’unico avvicinamento, durante quell’andazzo – surrogato del più nobile andare – all’oceano, lo procureranno i vuoti d’aria, tanto temuti dalle anime messe sottovuoto, dentro quel frigo alato.

Message in the bottle per l’ufficio

Ad un certo punto il dorso blu grigio lascia posto alle distese verdi delle foreste yucateche.

Il verde ispira l’esclamazione “terra in vista!” rituale dei naviganti soltanto dieci ore dopo.

Cancun ha la faccia della vacanza stereotipata, un tempio opulento innalzato per il turista americano, idolatra del lusso. L’ingombro del traffico brulicante tra gli edifici moderni, ha violentato un mare verde sconfinato e una delle coste più paradisiache dei tropici.

Tutto in nomine dei… ben quattro secoli dopo.

Via, via da qui… abbandonare i templi ai grassi americani che girano las avenidas con i sombreri in testa, è la parola d’ordine! Non posso permettermi di sporcare tra i cementi di Cancun la storia che sto accompagnando a casa vi sono altri posti dove portarla, altri nomi da incontrare.

A due giorni di cammino da qui esiste una specie d’istmo amputato:

Fu battezzata Isla Holbox; nelle sue capanne vivono soltanto pescatori martoriati dal sole e le zanzare.

Quelli pescano in acque basse dai fondali grigi, dove il turista non compare mai all’orizzonte.

Da lì farò passare la mia storia, dormendo in un’amaca, mangiando a mezzogiorno il pesce pescato all’alba da chi mi ha prestato l’amaca.

Lì, dove i miei occhi hanno saputo cosa significhi starsene distesi in una bicocca di legno galleggiante su bassi fondali antiresort; a mezzo miglio dalla costa, in mezzo a migliaia di fenicotteri rosa ho capito una cosa: mi piacciono i bassifondi… ci sguazzo!

Lettera mai inviata a Laura

Un solco d’asfalto tracciato diritto tra due ali di selva; guardi nello specchio retrovisore e quello che vedi dietro a te è uguale a ciò che percorri davanti: un solco d’asfalto tirato diritto tra due ali di selva.

Per ore va avanti così. I finestrini abbassati per combattere l’afa … e tu non ci sei…

Una stagione di maggiolini rossi quella che trovo sui bassi altopiani settentrionali mentre infilo la stagione dei maggiolini a bordo di un maggiolone bianco…la Volkswagen li fabbrica qui, in Messico.

Il maggiolone non fa più di novanta chilometri l’ora e in fondo alla strada c’è Valladolid.

Quando arrivi invece di sentirti fermo, ti rendi conto d’essere precipitato indietro di almeno ottant’anni. Valladolid è la sua piazza coloniale, la punta d’un campanile da dove scendono fili di bandierine multicolori. … e tu non ci sei…

Intorno alla piazza, ai lati della striscia d’asfalto che qui chiamano carretera, case di fango, un pullulare di gente dalla pelle marrone, scalza, sorridente e odorosa di polvere:

L’altra Valladolid non ti bada, si limita a sorriderti con quegli occhi a mandorla ereditati dai Maya. Occhi simili ai miei che finiscono per sparire nelle penombre di certi bazar ricolmi di cianfrusaglie colorate. …e tu non ci sei…

Sulla migliore poltrona di un barbiere mi faccio rasare a zero. I miei ricci neri, a terra si confondono con la lana che un ometto, dentro un recinto di fronte, sta tosando dalle sue pecore. Mi guarda e ride.

Al tramonto raggiungo in bici il cenote dal nome impronunziabile: Xkakah. Grotta calcarea venti metri sottosuolo, piena d’acqua limpida e dolce. M’immergo in una luce verde che penetra da un unico e alto buco. S’affacciano i rami della foresta. Si sta bene qui: è fresco! Cade una foglia d’oro.

I corpi di due giovani donne europee mi nuotano accanto, le sfioro: fresche! …e tu non ci sei più…

Condannati a mirare il cielo

Portare al collo un topazio, ti condanna ad iniziare ogni giornata al sorgere del sole. Forse perché sono gialli entrambi ed evidentemente si contagiano di luce l’un l’altro. Nasce uno, ti sveglia l’altro.

Vera e propria maledizione visto che da queste parti il sole sorge alle cinque del mattino!

A darti la sveglia ci pensano i ripetitivi chicchirichì dei galli. –“Chi se lo ricordava più il canto del gallo; l’ultimo ricordo che mi lega al canto di un gallo risale all’Havana Vieja, mi pare”-

Subito dopo entrano in concerto alcuni uccelli che emettono un suono metallico, strano; uccelli che non si riescono a vedere, nemmeno se ci si mette a scrutare attentamente le tenui oscurità dell’alba.

Con lapiramide di Chichén Itzà si consiglia l’approccio di primo mattino, con la levata del sole; se ne sta lì splendida, una dama di pietra bianca che si stagli nel bel mezzo d’una piana d’erba corta.

Qui si rifugiò il pacifico Quetzalcoatl scacciato da Tula. Qui a Chichén Itzà.

Tutto della piramide di Kukulcàn ha un riferimento con il tempo e il calendario, misura del tempo.

Quattro sono le rampe che conducono alla sommità; medesimo numero delle stagioni e dei punti cardinali. 91 ripidi scalini per rampa; 91 x 4 = 364 + il piano sopra… et voilà costruito l’anno solare. Una piramide costituita da nove livelli sovrapposti, 9 enormi gradoni che segnano angoli retti sui due piani inclinati di ciascuna rampa; 9 x 2 = 18… et voilà i mesi dell’anno vago, incrocio dei calendari lunare solare e venusiano. Perché i Maya erano così fissati con il cielo? La risposta si ottiene nel preciso momento in cui si giunge in cima alla piramide. Basta rendersi conto dell’immensa distesa forestale che circonda Chichén Itzà per capire che i Maya potevano rivolgere gli occhi soltanto al cielo… solo lassù c’era qualcosa in movimento da vedere… gli astri del cielo si muovevano, la foresta no!

Il topazio brilla al sole, la crapa pelata fa lo stesso, ed è bello godersi il panorama. Più tardi arrivano i grassoni americani, direttamente da Cancun con i loro sombreri in testa… orde di grasso bianco, e la piramide di Chichén Itzà diventa solamente una scalinata, un posto dove girare lo spot pubblicitario di una lattina di Fanta che rotoli giù…. no ! no ! no ! ……nooooooOOO!!!!

Statale 295

Statale Mex 295: la strada che da Valladolid punta decisa — su — verso il golfo del Messico.

Lassù, secondo le antiche scritture glifiche, approdò Quetzalcoatl. Da allora in poi la costa è abitata da fenicotteri che ne hanno fatto una dimora privata. Voli raso acqua sfumano di rosa le correnti calde del mare: un paradiso!

La 295 tira dritta come una freccia tirata bene, eppure soltanto dieci chilometri dopo aver lasciato alle spalle la coloniale piazza di Valladolid, con le ragazze che ti fischiano dietro, mi faccio distrarre da una via secondaria che corre in mezzo ai campi di granturco e le piante di fagioli…

…distratto così…

dal volo di certi cervi volanti. Li vedo agitarsi nel cielo — a decine — con l’erba alta e folta che nasconde, evidentemente, i bimbi che li pilotano da sotto.

I bambini amano gli aquiloni, credo…

Ogni bambino è artista… il problema è come rimanere artisti — sosteneva Picasso –

La frase m’ispira, e così decido di mettere la freccia a destra ed infilare la via dei cervi volanti trattenuti da quegli artisti invisibili, bambini che non vedo ma che immagino correre tra l’erba folta.

Mi tagliano la strada centinaia di farfalle, e in fondo alla strada -inaspettato- il sito maya di Ekbalam: il giaguaro nero.

All’entrata la faccia cortese del señor Anastasio mi dice che il sito è chiuso. Sono in corso gli scavi archeologici finanziati dal National Geographic. Ekbalam è un’area di 24 km quadrati che gli archeologi stanno liberano dal morso della giungla che la ricopre da secoli.

-“La prego! La scongiuro! …mi lasci entrare!”-

Mi lascia entrare

Viene a prendermi Daniel: 13 anni, guida ufficiale di Ekbalam, nipote di Anastasio, piedi scalzi.

Tolgo le Birkenstock anch’io e c’incamminiamo a piedi scalzi sull’erba attraversando l’immancabile campo della palla.

Daniel ha un volto serio da adulto e due occhi felini.

-“di dove sei?”- gli chiedo

Sono di qui… sono un Maya e lo dice fiero d’esserlo, ribadendolo con tutto quello che sa su Ekbalam.

Quello che sa me lo racconta mentre c’inoltriamo tra gli edifici appena disossati da terra e piante.

Al tramonto gli edifici si fanno rosa, gli archeologi scendono dai cantieri, i lavoranti si siedono all’ombra di alcuni teloni blu a bere una cerveza fria, e il palazzo centrale di 126 metri di larghezza e 45 di altezza, domina il mondo. La bocca spalancata di un ipotetico dio della pioggia s’apre al centro. Non si capisce se il palacio mangi la collina o se è la collina dove è messo che l’inghiotte.

Entriamo? … Dove? chiedo a Daniel. Dentro la bocca! mi risponde. Entriamo!

Alla fine tocca a Daniel fare domande

-“Perché sei senza capelli? …una malattia?”-

Diciamo di sì — dai — possiamo anche chiamarla così! Rido divertito

Non può capire il taglio dei ricci offerto ai suoi dei. Dono che ho fatto in cambio d’un esito felice per la storia che sto portando a casa, non potrebbe capire nemmeno se glielo spiegassi. Non può capire la mia immagine di santone delle parole… pelato.

Daniel ha tredici anni. è un bimbo che lavora come un Maya, per la gloria dei Maya e per portare a casa qualche quattrino — altro che storie — sbarca il lunario.

-“Studierò archeologia, scoprirò altri siti simili ad Ekbalam, e mi comprerò un orologio come il tuo”-

Parla come un uomo che abbia conservato l’anima di un bambino… la gente migliore!

Nel momento di lasciarci gli regalo l’orologio e dieci dollari per i suoi studi.

Lo zio Anastasio ci scorge a piedi nudi e ride contento.

Daniel, bambino senza aquiloni, il tempo degli aquiloni è passato pure per lui. Forse troppo presto!

Caro Picasso! Mi sa tanto che da queste parti il problema è come rimanere bambini, altro che artisti. Non ho visto bambini presso la statale 295. Solo aquiloni e sogni d’uomini:

maya e non maya!

(fine prima parte)