Buongiorno a tutti. Quando sono a Trieste mi sento un po’ come Lawrence Oliver allorché, ne “Il Maratoneta”, frequenta la zona ebraica di New York: ho paura che, malgrado siano trascorsi più di trent’anni, qualcuno mi riconosca e mi additi alla folla per fare di me giustizia sommaria. La colpa è del Festival del Film di Fantascienza, che frequentavo regolarmente nei tardi anni ’60; era un’occasione per conoscere gente interessante, per incontrare vecchi amici, per scambiare quattro chiacchiere con Flavia Paulon, l’ineffabile Renzo Corazza e il focoso Camillo Marino; per trascorrere, insomma, una settimana estremamente gradevole. Fu proprio al Festival di Fantascienza che un altro habitué, Luigi Cozzi, maturò l’idea di girare un film ispirato a un racconto di Frederik Pohl, e di rivolgersi a un gruppo di amici (tra cui, ahimè, c’ero io) per scrivere la sceneggiatura. La storia di quanto accadde 2° Festival di Fantascienza dopo occuperebbe ben più dello spazio che mi è stato concesso; sta di fatto che le riprese del film in questione, partito con grandi speranze e grossi progetti, furono funestate da tali e tanti imprevisti da fare impallidire “La pelicula del Rey”; una delle peggiori disgrazie fu il fatto che — per l’improvviso forfait di un finanziatore — mi toccò prendere le sue veci (l’ alternativa era di interrompere tutto e gettare quello che si era già speso), in quanto, a quell’epoca, ero l’unico del gruppo che — si fa per dire — “guadagnava”. I Triestini sopravvissuti conoscono perfettamente la cosa (nel senso di “The Thing”) che ne sortì: l’ormai leggendario “Tunnel sotto il Mondo”. Per qualche ragione che ancora mi sfugge, il film fu messo in programmazione al Festival del 1969. Com’era abitudine, la mattina esso fu oggetto di una proiezione riservata ai giornalisti; voglio ricordarvi che, in quell’epoca, tutto ciò che era noioso e incomprensibile passava per arte, e solo pochi critici coraggiosi osavano dire ciò che veramente pensavano. Accadde così anche nel caso del “Tunnel”, che in fatto di noia e incomprensibilità raggiungeva livelli Guinness dei primati; solo un giornalista — non ricordo chi, lo chiamerò “Trevisan” per comodità — ebbe il fegato di non sbilanciarsi con una critica positiva, e rimandò il suo parere a dopo il giudizio (sincero) del pubblico. Lo “zoccolo duro” del pubblico del Festival di allora erano gruppi di ragazzotti armati di trombetta e fischietto che vi si recavano a vedere i film di Godzilla. La sedizione cominciò ai titoli di testa, i quali, insolito record, riuscivano a essere già noiosi; il delirio scoppiò allorché comparve il cognome di un co-sceneggiatore, Tito Monego (il gioco di parole era, ahimè, inevitabile). Il rumoreggiamento, accompagnato da cori “ba-sta, ba-sta” continuò fino alla fine del film, quando una voce solitaria e minacciosa gridò “Copé el regista”. Il regista e io ci allontanammo vilmente facendoci scudo della signora Paulon. Il giorno dopo il giornalista “Trevisan” firmò un memorabile articolo sul “Piccolo”: “Avevamo ragione. Il pubblico non si lascia ingannare. Il Tunnel sotto il mondo è una colossale schifezza” (non usò proprio queste parole, ma il concetto è quello).

Per qualche motivo ancora più oscuro di quelli che portarono alla sua accettazione al Festival, il “Tunnel sotto il mondo” è diventato una sorta di “cult”, ed è citato in termini benevoli in un’infinità di repertori.

Anzi, a dire la verità i motivi non sono oscuri: il film non ha mai girato nelle sale, ed è stato citato solo per sentito dire. Ma a Trieste, invece, l’hanno visto davvero, e per questo ho paura. Approfitto dell’occasione per chiedere scusa alla cittadinanza, sperando che il delitto sia finalmente caduto in prescrizione.

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Concludo con un ricordo non richiesto del circolo “La Cappella”. Dunque, nel 1970 mi trovavo a Trieste insieme alla mia ex moglie (allora solo fidanzata) e al mio ex suocero. Quest’ultimo era (purtroppo è morto qualche anno fa) un siciliano di tipologia normanna — alto, biondo, occhi azzurri, in stile Alec Guinness —; malgrado la sua rispettabile età era di vedute molto aperte, in quanto cresciuto in un ambiente cosmopolita. Parlava perfettamente inglese e francese, leggeva molto, viaggiava spesso, coltivava vari interessi in campo artistico; in poche parole era una persona estremamente interessante, al punto che mi ispirai a lui per un personaggio di una serie a fumetti, “Il Conte” de “Gli Aristocratici”. Bene, in quel periodo “La Cappella” proponeva un ciclo dei film di Andy Warhol, una “prima” assoluta per l’Italia; io ne ero molto incuriosito, e il mio ex-suocero — che conosceva benissimo Andy Warhol come artista — accettò volentieri di assistervi. Non ricordo esattamente che film davano quella sera; so solo che i primi short erano — ma sì, diciamolo! — di una noia assolutamente mortale, ma ex suocero, ex moglie e io resistemmo gagliardamente. Poi, la catastrofe: un film interpretato — mi pare — dalla inquietante “Ultra Violet”, noioso come gli altri ma di carattere, per quei tempi, decisamente hard. Come ho già detto, mio suocero, malgrado la sua rispettabile età, era di vedute molto aperte; era cresciuto in un ambiente cosmopolita, parlava perfettamente inglese e francese, leggeva molto, viaggiava spesso, coltivava vari interessi in campo artistico — ma, dopo i primi cinque minuti di film a emergere fu unicamente la sua natura siciliana: “E tu porti mia figlia a vedere questa roba?”. Si alzò platealmente trascinandola via; malgrado il mio imbarazzo, da allora “La Cappella” mi è sempre stata simpatica, perché non riesco a non identificarla come un luogo indicibilmente peccaminoso.