D’improvviso un frullo d’ali
cos’era la mia vita, prima del giorno in cui fu destata dal frullo d’ali di un uccello levatosi d’improvviso spumeggiante, sull’orizzonte?
Quanto del mio corpo avevo abitato fino ad allora? Corpo di giovane ragazzo, tutto pelle e ossa, avvezzo a vagare per le campagne solitarie e acri di ginepro, ad inerpicarsi sulla costa scoscesa, lussureggiante di vigne e frutti paradisiaci, spalancata a strapiombo sull’immensa azzurrità.
Poi, d’improvviso il frullo d’ali.
Forse dapprima fu un gabbiano, bianco fiore dai vaghi contorni libratosi in lontananza; oppure l’uccello dei fiabeschi racconti di mia madre, uccello che di sera deponevo nel nido del sonno, affinché nei sogni si ammantasse sontuosamente di meravigliose piume dalle forme e dai colori più bizzarri.
Senz’altro però non era un uccello delle nostre parti: né passero di grondaia né cinciallegra di pergolato; né merlo nascosto nei cespugli del giardino né uno della lunga fila di stornelli che solevano darsi convegno sullo scrimolo del tetto del vicino in autunno o in primavera, chissà, forse addirittura d’inverno, quando un freddo vento sferzava il cortile e il loro litigioso cinguettio scaldava l’anima.
Eppure questo non era certo sufficiente perché qualcuno di essi potesse tramutarsi in quell’uccello apparso all’orizzonte, che in un primo tempo avevo invero più intuito che visto, ma che tuttavia diveniva di giorno in giorno più nitido, di giorno in giorno sempre diverso, ora soave ora di forme terrificanti. Come un richiamo alla vita, come il timore di compiere il primo passo, come il desiderio di pronunciare una parola udibile e intelligibile. Parola di pane, parola di terra, parola scaturita dalle profondità dell’abisso riverberante di cielo.
Fu allora che presi a vivere quel mio corpo di giovane ragazzo, in ogni sua fibra. E da allora è come se dovessi volare.
L’albatro
Albatro, fiamma di mari del sud,
e nella gola di torbida acqua
la lava riluce,
alle grida la gente si desta
in un canto
che in parola non si traduce.
Albatro, fiamma di mari del sud,
ed è oceano
ed è uragano
ed è iceberg della coscienza
che è tutto vano.
Albatro, fiamma di mari del sud,
ma ai pescatori del mio paese
sembra un indovinello:
sarà un vento
o un pesce,
neppure li sfiora l’idea
che un uccello.
Il letto
Attendi in porto, attendi,
nave annosa e provata,
che al calar della sera io e lei
a piedi scalzi saliamo sulla tua tolda
per prendere il largo.
Le lenzuola si tendono con sibilo ribelle
come vele riarse, le parole
spumeggiano come birra
innanzi ad accaldati marinai,
si effonde un profumo di palme, di sud, di pelle
satura di sole e alghe.
Salpiamo nei venti e le correnti
ci sospingono e portano lontano, ma in noi
sta all’erta un lupo di mare –
scampati alle tempeste, possiamo
pur testimoniare sulla morte:
nulla è eterno nulla è eterno nulla
e ogni istante un’eternità.
Viviamo di lotta come le vele di vento.
Le molle vibrano d’amore,
la solitudine le impietra.
La tavola
Beata tu sia, tavola, che hai gambe
ma non ti allontani da noi: tu sì che sei saggia
e sai dov’è la felicità.
Beata tu sia, tavola, che sei di rovere tinto
e ampia, sì che tutti e quattro
a te sediamo con i nostri giorni e notti.
Con tovaglie ti copre la brezza di primavera,
il profumo di cibo casereccio ti impregna
e tu verdeggiando cresci,
cresci e sei la nostra casa: in te
entriamo e da te usciamo confortati
e dissetati.
Beata tu sia, tavola, che sei il mio libro:
nei tuoi cerchi segno la felicità
e crescita dei figli, con l’altezza delle tue gambe
misuro il mio sconforto –
un giorno su di te solo tre piatti,
un altro giorno due,
poi un suono secco nel tuo dorso:
come molla saltata in un vecchio orologio.
La gente senza sonno
Prima di mattina la gente senza sonno
per la città ansante si trascina sulla riva
in cerca del molo. Era ancora lì, l’altro giorno,
teso verso l’oltremare. Ma l’ha spazzato via.
La burrasca? La tenebra? L’onda che erode?
L’ultima nave salpata prima d’attraccare?
Mentre nel cielo si diffonde un pallore,
ogni ora non più di un minuto vale.
Fissano quest’assenza del molo,
questa freddezza che toglie il fiato.
A oriente, dove tutto inizia di nuovo,
il giorno senza di loro sorge pacato.
Il mattino va al mercato
Il mattino va al mercato, cigolante e duro,
ammantato di platani e fragranza di caffè,
voci intrecciano nidi negli orecchi,
maniche scompaiono in ampi panieri.
Quante forche forcine e passi perduti,
quanto svolazzare, acqua quanta,
quanto, quanto, quanto di tutto
che si apre, sbadiglia, vomita, canta.
E lasciati i nostri letti lo seguiamo,
alcuni ancor bianchi del candore di lenzuola,
come favi di gioiose grida e aspettative,
ma pure chi, non più uomo, spettro ormai vola.
Lontananza
Brilla lontano lontano, laggiù.
È il mare? — È blu.
Cos’altro vuoi dunque che sia
di così caro all’anima mia.