Hollywood, atto secondo. Il ritorno.

Torniamo per un momento al 1934 e alla pubblicazione di “Tenera è la notte”, il romanzo forse più complesso e sofferto di Fitzgerald, un’ode alla sconfitta e alla caduta dei sogni, come sempre. Il pubblico aveva accolto il romanzo con un certo distacco, e le vendite non erano state al meglio.
Per stare più vicino a Zelda, Scott aveva preso dimora in North Carolina, non lontano dalla clinica dove lei era ricoverata. Poi, a sua volta, aveva dovuto entrare in ospedale per farsi controllare e curare un’altra recidiva tubercolare, oltre ad un trauma a una spalla per un assurdo tuffo in piscina.
Giunse veramente opportuna, nel 1936, un’ulteriore offerta da Hollywood, e a Scott non rimaneva altra scelta che accettarla. Fece il viaggio Est-Ovest via mare, per rimettersi un po’ in salute, e nell’estate del ’37 poté iniziare il lavoro, con un contratto di sei mesi.

Questa volta entrò negli studi della M.G.M. a Culver City, ben deciso a mettere a frutto le due brutte esperienze precedenti, e a lavorare senza collaboratori malfidati. Gli venne chiesto, per cominciare, un facile compito, la revisione della sceneggiatura di “A Yank in Oxford” del regista Jack Conway, protagonista Robert Taylor. E questo “Americano a Oxford” andò a buon fine: era infatti una di quelle storie universitarie care ai suoi anni giovanili. In Italia vedemmo questo film nel 1938, e fra gli interpreti spiccava una giovanissima attrice inglese, di nome Vivien Leigh..

Più impegnativa la sua seconda collaborazione a “Tre Camerati”, un film diretto da Frank Borzage nel ’38, per il quale il ruolo di produttore era spettato a Joseph Mankiewicz, come già altre volte nella sua lunga carriera. Borzage aveva diretto anni prima un film di guerra da un celebre romanzo, “Addio alle armi” di Hemingway, e questo “Three Comrades” proveniva ancora da un romanzo bellico di Eric Maria Remarque su guerra, amore e morte, un melodramma con tre amici-soldati (Rob. Taylor, Rob. Young, Franchot Tone) e una dolce fanciulla (Margaret Sullavan, ottima attrice strappalacrime). A Fitzgerald venne affidato il “trattamento” del romanzo, e lui, già segnato dalle precedenti esperienze, chiese a Mankiewicz di poter redigere anche la sceneggiatura completa. Per tutta risposta, gli fu messo alle costole uno dei soliti mestieranti, per cui lavorarono insieme nel più completo disaccordo, con qualche intromissione dello stesso produttore in persona.

In una lettera accorata, Scott gli scrisse: “Senti, Joe, i produttori non possono mai sbagliare? Io sono uno scrittore onesto, e pensavo che tu avresti agito correttamente — “you were going to play fair..”. Il valido mestiere di Borzage e degli attori portò il film al successo, ma per Fitzgerald fu un altro duro colpo, anche se gli venne conservato il nome nei “credits”. Si seppe in seguito che era soltanto per non avere storie con il sindacato degli sceneggiatori.
Margaret Sullavan fu premiata come migliore attrice dell’anno, e il film fu incluso fra i dieci “best”. Tutto ciò può far meraviglia, date le variazioni che aveva subito la sceneggiatura di Fitzgerald: ma il “mestiere” di Mankiewicz era andato diretto allo scopo, che era poi quello del “box-office” e dei premi hollywoodiani.

Subito dopo, Scott fu incaricato di sceneggiare “Infidelity”, un film con Joan Crawford, ma la cosa finì quasi subito per un intervento della censura: era anche sfortunato.. Non ebbe sorte migliore un film biografico su Madame Curie: lui, nell’intento di non urtarsi con la Metro si mise, sono parole sue, “a lavorare come un matto”. Scarso il risultato, e il contratto non venne più rinnovato.

Nell’estate del 1937 Scott conobbe Sheila Graham, una giovane e bella corrispondente inglese per una catena di giornali. Gli ricordava le donne amate da lui: Zelda, Ginevra Kíng, l’attrice Lois Moran di “Tenera è la notte”, e fu amore a prima vista.
La Graham ha lasciato in un suo romanzo, “Beloved Infidel”, una tenera testimonianza della loro relazione. Quasi ovvio, venti anni più tardi, un film omonimo di poco valore.
Questa Sheila stava per ispirare a Scott la figura della protagonista di “The Last Tycoon”, il suo ultimo romanzo rimasto incompiuto.
Incoraggiato da questo felice incontro, Scott si mise a fare lo sceneggiatore in proprio. Il produttore Selznick volle includerlo fra i tanti sceneggiatori che avevano già lavorato per “Via col vento”, ma fu ancora un tentativo a vuoto: il testo della Mitchell era “come le Sacre Scritture” (lettera a Perkins) , e non se ne fece nulla.
Subito dopo il produttore Walter Wanger della Paramount gli affidò la sceneggiatura di una commediola, vedi caso, di soggetto studentesco, “Winter Carnival”. Il film era ambientato in una città universitaria del New Hampshire, ed era necessario un sopraluogo in sede. Il brusco passaggio, in aereo, dal clima californiano alle nevi del Nord provocò a Scott una polmonite. E per di più lo accompagnava Budd Schulberg, un amico scrittore che, ignorando del tutto i suoi precedenti,lo fece brindare già durante il viaggio. E fu il crollo completo. Fece una figura orribile presso i professori di quell’università, e tornò precipitosamente a Hollywood per curarsi. Fortunatamente era con lui la giovane Sheila per assisterlo.
Budd Schulberg si ispirò più tardi alla sciagurata impresa nel suo libro “I disincantati” , dedicato in buona parte ad un personaggio che, malgrado lui lo negasse, era sicuramente questo povero Fitzgerald ridotto malissimo…

Il 1939 è l’anno del maggiore impegno di Hollywood, con la produzione di film memorabili come “Via col Vento”, “Ombre Rosse”, “Il Mago di Oz”, e parecchi ancora. Ed è anche l’anno in cui Fitzgerald rinuncia, salvo occasionali parentesi, a lavorare ancora per il cinema: troppe delusioni, troppe esperienze negative. Desidera inoltre applicarsi del tutto al suo romanzo.
Da tempo voleva scrivere su questa Hollywood, come lui l’aveva conosciuta: non un vero libro di denuncia, piuttosto un romanzo corale con tanti personaggi ispirati alla realtà. E aveva gia pronta la figura dominante: pochi anni prima era morto, trentasettenne, il produttore Irving Thalberg.

Verso l’epilogo, con “The Last Tycoon”

Malgrado un suo temporaneo licenziamento dagli “Studios” della Metro del 1931 diretti da Thalberg (per una delle solite questioni di sceneggiatura), Fitzgerald sentiva una sincera ammirazione per il giovane produttore, una figura isolata e particolare nel mondo di Hollywood. Esile, quasi fragile, era l’opposto del “Tycoon”, il magnate classico con sigaro e grinta: eppure dimostrava sempre molta risoluzione in ogni sua iniziativa. La migliore produzione Metro di quegli anni era passata sotto il suo rigoroso controllo, dai primi film sonori fino alla Garbo e aveva sposato una diva famosa, Norma Shearer, anche lei in primo piano nella Major del Leone.
Molti biografi di Fitzgerald si sono chiesti il motivo della scelta di Thalberg come modello del suo romanzo, tanto più che fra i due vi erano state ben poche occasioni d’incontrarsi. Secondo Wilson, biografo e critico letterario, il produttore Thalberg era sembrato a Scott come un’aquila che aveva volato molto in alto”… Più obbiettivo il parere di Lillian Hellman, acuta scrittrice di quegli anni: “Fitzgerald aveva idealizzato un uomo che era stato soltanto un giovane e brillante produttore”.
I mesi tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 furono molto difficili per Scott. Aveva ripreso a bere, era pieno di debiti, litigava sovente con Sheila che, dopo un’ultima scenata, la ruppe con lui e lo ammonì che, di quel passo, si sarebbe ammazzato.
Tuttavia, la stesura del suo romanzo su Hollywood procedeva con passione: l’ambiente del cinema richiedeva uno sviluppo molto più ampio che non, ad esempio, quello dei ricchi annoiati di “Tenera è la notte”. Il protagonista, ispirato a Thalberg, si chiama Monroe Stahr, ed è un magnate del cinema tutto immerso nel mondo ambiguo di Hollywood, ma nel contempo al disopra di questo. Vive nel ricordo della moglie morta, un’esistenza di intenso lavoro, circondato da personaggi classici: soggettisti, attori, registi, legali, ricchi finanziatori. Un giorno, un violento terremoto determina un allagamento degli “Studios”. Stahr, vedendo due visitatrici tratte in salvo, rimane colpito dalla straordinaria rassomiglianza tra la moglie scomparsa e una di loro.
Le fa cercare, la trova: la giovane è Katleen Moore, una giornalista inglese (ovvia l’analogia con Sheila), dal carattere forte, e prossima a sposarsi. Stahr, acceso di passione. non desiste, e fra i due vi sarà un intenso momento di amore. Poco tempo dopo, lei se ne va, forse per sempre, lasciandogli uno scritto di congedo e nient’altro. Ma Stahr la cercherà ancora..
Questi, in estrema sintesi, i fatti descritti nel romanzo, che era al suo sesto capitolo, circa la metà prevista, quando il cuore di Fitzgerald cedette a due gravi crisi coronariche consecutive, e fu la fine. Sheila era tornata da lui e gli era stata sempre vicina.
Il romanzo aveva già il suo titolo, “The Last Tycoon”, l’ultimo dei magnati. Quando fu pubblicata in Italia la parte recuperata con parecchie annotazioni di Fitzgerald era il 1959, e per esigenze editoriali venne fuori il titolo “Gli ultimi fuochi”, piuttosto commerciale, alla maniera dei film.. E fu anche il titolo del film di Elia Kazan del 1976, di cui parleremo.
Sorvolando volutamente i due splendidi romanzi intermedi, tutta l’attenzione della critica si concentrò, specialmente nel dopoguerra fra “Il grande Gatsby” e questi “Ultimi Fuochi”, spentisi purtroppo precocemente.
La tecnica del racconto è simile, perché anche qui abbiamo una voce narrante, come il Nick Carraway di “Gatsby”, ed è quella di Cecilia Brady, figlia del ricchissimo finanziatore degli Studios. Ma qui si tratta di una giovane viziata, vista un po’ criticamente dall’autore. Cecilia è anche innamorata di Stahr, il che toglie obbiettività al personaggio. Per di più, la vicenda è a tratti riferita anche in terza persona, per cui ogni tanto occorre un “Sono Cecilia e riprendo il racconto”. Tuttavia il risultato è in ottima sintonia con l’atmosfera caotica alla quale solo la forte personalità di Monroe Stahr può dare ordine con la sua autorità.
Edmund Wilson, che dobbiamo sovente citare (era stato, ricordiamolo, un compagno di Scott a Princeton) fa un’importante osservazione: Stahr è l’unico personaggio di Fitzgerald che abbia delle precise responsabilità sociali, ed è legato a un’industria di cui è stato lui stesso il creatore, o per lo meno uno dei creatori.
A conferma di ciò, va segnalato nell’ultimo capitolo rimastoci, uno scontro fra Stahr e un certo Brimmer, rigido rappresentante sindacale, con un’autentica colluttazione. È una delle poche situazioni sociali su cui Fitzgerald avesse scritto, segno evidente che i tempi erano in evoluzione.

“Ho sempre desiderato colpire dieci milioni di dollari”, è il cinico commento di Brimmer, “ma non sapevo che sarebbe stato così…”.

E qui ha termine quanto è in nostro possesso degli “Ultimi fuochi”, mentre l’immancabile Cecilia sostiene Stahr.

“Gli serbi rancore?” -chiede a lui- “Oh, no, ero ubriaco”, è la risposta.

Il funerale di Fitzgerald ebbe luogo il 27 dicembre 1940, alla presenza di poche persone, ed è impressionante l’analogia fra la realtà e il romanzo. Uno degli scarsi presenti era Dorothy Parker, una scrittrice che aveva rievocato nei suoi romanzi quell’epoca e la sua fine. E la Parker fece sommessamente lo stesso commento che Scott aveva messo in bocca ad uno sconosciuto presente al funerale di Gatsby: “Povero bastardo”..

Fitzgerald è sepolto accanto a Zelda, morta tragicamente nell’incendio dell’ospedale otto anni dopo. La tomba è nel cimitero di Rockville, Maryland, dove era già la sepoltura del padre di Scott.

La lapide, dopo il nome di Scott, dice : “Zelda Sayre , his wife”. La donna della sua vita è con lui, e la coppia di “Belli e dannati” è in pace.

Fitzgerald sullo schermo: un percorso difficile

Abbiamo detto molto sui rapporti tra Fitzgerald e Hollywood: ed era indispensabile, visto che la parte più difficile della sua vita era stata trascorsa, e in quale modo, nella città del cinema.
Ora ci sembra necessario fare una panoramica su quanto e come la personalità letteraria e quella umana dello scrittore siano state portate sugli schermi. E va fatta subito una distinzione tra i film “su” Fitzgerald e quelli “da” Fitzgerald, vale a dire quelli della sua vita o quelli della sua opera.
Tenuto conto che ben pochi romanzi o racconti dello scrittore non contengono elementi autobiografici, vi sono soltanto due romanzi, non di Fitzgerald, che abbiano ispirato una versione cinematografica.

Il primo è “Beloved Infidel” (Adorabile infedele) scritto da Sheila Graham, la compagna di Fitzgerald,negli ultimi suoi anni a Hollywood . È una cronaca un po’ romanzata dei suoi rapporti con un personaggio sicuramente scomodo: il libro uscì soltanto nel 1958, a molta distanza dalla scomparsa dello scrittore nel 1940.
Ma l’anno dopo era già nelle sale il film relativo, diretto da un celebre veterano di Hollywood, il regista Henry King, la cui esperienza risaliva agli anni del “muto”.

Due interpreti di rispetto, Gregory Peck e Deborah Kerr, non sollevano la pellicola dalla mediocrità: il regista, in un suo libro di memorie, ne attribuisce la colpa proprio a Peck, che aveva trasformato il suo Fitzgerald in uno sgradevole e odioso ubriacone “che gli spettatori erano felici di vedere morto”. Non ci sembra che questo fosse però l’unico elemento negativo: Henry King volle comunque esentarsi da ogni responsabilità, come avrebbe fatto poco tempo dopo con un altro film fitzgeraldiano di cui parleremo.

Il secondo romanzo “non di Fitzgerald” ha per titolo “Zelda” di Nancy Milford, pubblicato nel 1970. Una ricca e accurata biografia di ben quattrocento pagine dedicata alla moglie di Scott, “dove c’è dentro tutto” come dice la simpatica Fernanda Pivano. E nel 1993 esce un film inglese con lo stesso titolo diretto da Pat 0’Connor e interpretato da Timothy Hutton e Natasha Richardson. Non viene segnalata, nei titoli di testa, la provenienza diretta dal romanzo della Milford, ma è evidente che il soggetto non poteva ignorare quel testo sacro.
Il film è accurato nel descrivere gli ambienti “alla Fitzgerald”, specialmente nel primo tempo, e lo è un po’ meno nell’analisi del difficile personaggio affidato alla Richardson. Nel complesso, una decorosa illustrazione. Timothy Hutton è convincente in una parte di idealista deluso che aveva già svolto in altre pellicole, e qualche musica d’epoca fa da cornice senza disturbo.

“Il grande Gatsby” ha avuto tre versioni cinematografiche.
È interessante rilevare che la prima è datata 1926, un anno soltanto dopo la pubblicazione del romanzo. Il film, naturalmente muto, era diretto da Herbert Brennon e aveva Warner Baxter come protagonista. Non è stato possibile reperirne una copia e quindi non si può giudicarlo, ma colpisce la straordinaria tempestività nel mandare sullo schermo un titolo che si presentava certamente come dell’autore di “This Side of Paradise”, il romanzo che solo qualche anno prima aveva ottenuto un clamoroso successo di pubblico e di vendite.

Oltre vent’anni dopo, nel 1949, esce la seconda versione del “Gatsby”, diretta da Elliott Nugent per la Paramount, interpreti Alan Ladd e Betty Field, oltre a Shelley Winters. Nugent era un regista che aveva trattato un po’ tutti i generi, ma questo suo film risultò piuttosto modesto.
lntanto Gatsby fa la sua prima apparizione con la pistola da capogangster e la faccia spietata, coi soliti bruti al seguito: questo allo scopo di rendere subito palesi i precedenti del protagonista. Il quale rivela poi il suo animo romantico sistemandosi a Long Island e assumendo un viso estatico accanto alla donna amata, perduta e ritrovata, mentre la storia si dipana alla meglio con tutti i personaggi in regolare successione fino al tragico epilogo.
Alan Ladd era ancora un po’ lontano da quel suo “Shane” del 1982, forse la sua unica “performance” di un certo valore, mentre Betty Field risultò una Daisy fuori parte, e la Winters scompariva ben presto sotto la fatale automobile. Migliore risultò il Nick Carraway di Macdonald Carey nel ruolo più persuasivo del film.

Non è invece del tutto fallimentare la terza versione, diretta da Jack Clayton nel 1974. Il regista inglese vi si era dedicato dopo sei anni di assenza dagli schermi, con la collaborazione di Francis F. Coppola per la sceneggiatura. Il film è una ricca illustrazione del romanzo, favorita da un ottimo impiego del colore e della fotografia.

Il protagonista non è l’ex delinquente sognatore dell’edizione precedente, e l’interpretazione alquanto sotto-tono di un Redford appena decoroso alimenta l’aura di mistero del personaggio, nel quale uno spettatore di buona volontà potrebbe anche provarsi a ravvisare qualcosa del vero Gatsby di Fitzgerald. Lo staff degli interpreti ruota attorno alla figura di un Nick Carraway, il consueto perno della vicenda, reso credibile dalla decorosa prestazione di Sam Waterston,coinvolto suo malgrado in un’avventura fra il tragico e ilgrottesco, mentre Mia Farrow ci consegna una Daisy troppo querula e sciocca grazie alla quale il solito spettatore si domanda ancora quale sia mai il motivo della strana infatuazione del povero e ricchissimo Gatsby.
A nostro parere, la cosa migliore rimane la colonna sonora diretta da Nelson Riddle: le musiche accompagnano validamente le due ore e mezza di proiezione, e contribuiscono ad alcuni passaggi suggestivi della patinata ricostruzione ambientale. Le canzoni sono proprio dei “Roaring Twenties”, degli anni ruggenti e svagati: “Who”,”Sheik of Araby”, “Whispering” e soprattutto “What will I do” (che cosa farò?) di Irving Berlin, che è il motivo portante di tutta la storia.
In conclusione, questo terzo “Gatsby” cinematografico ci fa sfogliare un album visivo e sonoro di un certo pregio ma proprio non ci aiuta ad entrare un po’ nell’animo del suo ispiratore, neppure di fronte a un Robert Redford notturno, in piedi davanti alla baia che gli rimanda la “luce verde” di una donna irreale.
Belle musiche, belle immagini, e poco altro.

“Tenera è la notte” fu portato sullo schermo nel 1962 dal regista Henry King, che aveva già diretto nel ’59 “Beloved infidel” tratto dal romanzo di Sheila Graham di cui abbiamo parlato a suo tempo.
Gli interpreti furono Jason Robards Jr. nella parte del medico Dick Diver, insieme a Jennifer Jones nel ruolo della moglie Nicole dal trauma psichico infantile, e Joan Fontaine come la ricca depositaria del patrimonio di famiglia. Il corredo scenico, alquanto da cartolina, ci porta in Costa Azzurra e nella Svizzera del lago di Zurigo, mentre gli abitanti della vicenda sono soprattutto i ricchi ubriaconi della spiaggia di Antibes nonché i primari venerandi delle cliniche svizzere con relativi dottori avidi di guadagni.

Su questo sfondo si muovono appunto Dick e Nicole, vivendo la loro travagliata storia coniugale e morale, fino alla definitiva separazione.
Tutto, quindi, come da copione più o meno fedele al romanzo.
C’era però un potente produttore di nome David 0. Selznick con una moglie che era proprio Jennifer Jones: lo stesso binomio che cinque anni prima aveva creato grossi problemi a un film di Charles Vidor derivato da “Addio alle armi” di Hemingway, interpretato da uno spaesato Rock Hudson e dalla suddetta moglie del produttore, sugli sfondi bellici friulani della Grande Guerra.

Anche per “Tenera è la notte” toccò al regista di turno subire la dittatura e le vessazioni di Selznick. Ascoltiamolo in una sua accorata intervista: “Disgraziatamente Selznick volle Jennifer per la parte della protagonista. Mi mandava delle lunghe lettere perché voleva che certe scene fossero girate in un certo modo, pena lo scioglimento della compagnia” (c’era infatti un contratto-capestro da rispettare). “Ne venne fuori un film mediocre che avrebbe potuto diventare un film eccellente. Le scene con la Jones, imposte da Selznick, avrebbero dovuto, secondo lui, portarla alla nomination o addirittura all’Oscar per la migliore attrice…”

Ma “She gave a terrific performance”, e un tentativo legale venne stroncato sul nascere dal tremendo produttore.
Al filmnon restava nulla della malinconia d’amore che accompagnava i due protagonisti del romanzo di Fitzgerald nel loro mondo sognato e già sparito nel tempo. Era stata anche l’ultima apparizione di Jennifer Jones, un’attrice che aveva fatto cose eccellenti nei suoi anni migliori. La vedemmo ancora qualche volta in un breve “cameo”..

Per concludere: il famoso racconto, il romanzo non finito, e il loro destino sullo schermo

“Babilonia Revisited” è il primo racconto di una serie pubblicata da Fitzgerald nel 1931 sotto il titolo “Taps at Reveille” (la sveglia). È sicuramente uno dei suoi più belli, e ha una trama molto semplice: un americano poco più che trentenne, Charlie Wales,torna a Parigi, dopo un anno.di assenza, per riprendere la sua bambina, affidata alla zia.
Sua moglie Helen era morta per un suo atto di irresponsabilità da ubriaco: al rientro da una baldoria l’aveva chiusa sbadatamente fuori di casa nel gelo d’una notte invernale. Ora Charlie è sobrio e lavora, la bambina è cresciuta e lui se la vuole portare con sé.
Si scontra con la durezza vendicativa della cognata Marion, sorella della morta, che non gliela vuole affidare, e proprio quando lei è quasi convinta, la visita imprevista d’una coppia balorda di quel disgraziato periodo manda a monte ogni cosa.
E Charlie riparte da solo. L’epilogo è uno di quei capoversi indimenticabili di Fitzgerald che ci rimangono dentro: “Un giorno sarebbe tornato, non potevano fargliela scontare per sempre…”.
Era praticamente impossibile che prima o poi questo racconto non trovasse una strada per lo schermo. E questo avvenne nel 1954, quando Scott era morto da quattordici anni: non ne rimase neppure il titolo che diventò “L’ultima volta che vidi Parigi” , mentre la vicenda veniva spostata al secondo dopoguerra, del tutto estraneo agli anni folli di cui parlava il racconto. Charlie trova ben poco, dopo i dieci anni di assenza, al di fuori di portieri d’albergo, barman o camerieri, piuttosto stupefatti per la sobrietà e la parsimonia dell’ex-gaudente.
La narrazione è accompagnata da un motivo musicale che porta la firma illustre di Jerome Kern e che in qualche momento lascia transitare su di noi il fantasma di Gershwin. suo allievo d’un tempo: “The Last Time I saw Paris” è una bella musica ma si perde nel melodrammone, diretto da un Richard Brooks che, malgrado il suo passato di valido sceneggiatore, cede facilmente alle lusinghe della trama lacrimosa, con la complicità degli attori che sono Van Johnson e Liz Taylor, senza dubbio “belli” ma ben poco “dannati”. C’è anche Donna Reed, rigida sorella della defunta (che qui sarebbe anche innamorata del cognato vedovo) e Walter Pidgeon, padre delle due, non previsto nel racconto originale e incosciente scialacquatore. Naturalmente la bambina dice “paparino” al povero e stravolto Van Johnson..
In sostanza, un “ritorno” di questa Babilonia al quale avremmo volentieri rinunciato. Non mancano gli spunti autobiografici consueti nelle cose riferite da Fitzgerald. Ma quella sua realtà era tutt’altra cosa.

E veniamo a “The Last Tycoon” ossia “Gli ultimi fuochi”, che è pure l’ultimo film del regista Elia Kazan, del 1976.
Il soggetto è un classico del genere “Hollywood’s Hollywood”, dove la città del cinema racconta se stessa . La trama è abbastanza fedele al romanzo incompiuto di Fitzgerald: il percorso sentimentale di Monroe Stahr, alter-ego del produttore lrving Thalberg, si svolge sullo stesso schema: la scoperta accidentale di una ragazza che gli ricorda la moglie morta,e il seguito senza conclusione, con lei che si dissolve nel nulla dopo il loro intenso ma breve rapporto d’amore.
Robert De Niro trentunenne è un ottimo interprete della malinconica e solitaria figura del magnate, alle prese con una Hollywood spietata, ed è molto somigliante all’immagine fisica di Thalberg . Una giovane attrice inglese, Ingrid Boulting, è la donna-apparizione che ricorda la moglie scomparsa. Notevole il gruppo degli “Hollywoodians”, con Robert Mitchum massiccio capitalista assieme a Ray Milland, Tony Curtis, Dana Andrews e John Carradine che sono il “cameo” di loro stessi, tutti memorabili attori della Hollywood che fu.
Una particolare segnalazione per Jeanne Moreau, pittoresca diva con i devastanti segni dell’età, e per Teresa Russell, molto promettente nella parte della giovane Cecilia figlia di Mitchum capitalista, e voce narrante del film, come era il Nick Carraway del “Gatsby”, piuttosto innamorata del diafano Monroe Stahr. Il sindacalista della scena terminale. che abbatte Stahr con un pugno, è Jack Nicholson, reduce dall’Oscar per “il nido del cuculo”.
Naturalmente, la sequenza (che è anche nel romanzo) del soldino mimata benissimo da De Niro che “stava solo facendo del cinema”. è puro e genuino “Actor’s Studio”. Lo sbalordito sceneggiatore che lo guarda è Donald Pleasenee.
La parte finale del film non risente troppo dello strappo letterario proveniente dal romanzo incompleto: Stahr segue una sua via verso il domani entrando in un teatro di posa non illuminato, e intanto la macchina che lui stesso ha creato sta progettando il suo licenziamento dagli Studios. In un breve soliloquio, sussurra che “non vuole rinunciare”. Al suo lavoro? Alla sua donna? Non lo sappiamo..
“Gli ultimi fuochi”è senza dubbio il miglior film “da Fitzgerald” ed è anche una dura requisitoria sul mondo del cinema.


Breve epilogo

Il cinema, inteso come fabbrica d’immagini sullo schermo, non ha trattato bene Fitzgerald. Gli ha concesso qualche accurata versione esteriore dei suoi romanzi (Gatsby e Gli Ultimi fuochi), e poi soltanto delle pellicole insignificanti o anche al limite della più desolata mediocrità.
Le sue opere meritavano ben altro. E ci si domanda se questo ” altro” sarebbe mai stato realizzabile. Del resto, è la storia ditanti grandi autori tradotti in pellicola, dei quali Fitzgerald ha condiviso la sorte. Pensiamo, uno per tutti, al suo contemporaneo Ernest Hemingway: e potrebbe farne seguito un elenco senza fine di nomi illustri.
I due film citati sopra hanno portato un loro contributo estetico, e quello di Kazan anche qualcosa di più verso la conoscenza dì uno scrittore mal conosciuto o peggio travisato.
Ma diciamolo, agli spettatori: Fitzgerald è ben altro. Qualche sua pagina vale molto più di tutti i film che ne sono venuti fuori. Rileggiamole, non sarà tempo sprecato.

(fine)