Primo classificato sezione “poesia edita”
I CAPRIOLI
Passano gli anni come caprioli
tra picchi e balze della nostra vita
in un’estrema tensione verso il cielo
e prosciugano
tutte le nostre pozze d’innocenza
per placare la loro sete,
la loro arsura infinita.
E ci costringono così
ad amarci con sempre meno indulgenza,
ad arrancare verso le nostre mete
con eccesso d’intemperanza e poca fortuna,
fino all’ultimo battito prima della fine.
Appena nei dipressi del confine
ci accorgeremo che io non sono Tex Willer
e tu non sei la luna.
L’OSTERIA
Un gabbiano che plani per caso dentro un’osteria
sospinto dal vento e dai cattivi pensieri
non può fare altro che bere del vino rosso
e unirsi alla bella compagnia
in sarabanda di bestemmie e di ammiccamenti e giochi d’azzardo
girando invano lo sguardo
dagli angoli più celati a sotto i tavolini
dove ristagnano macchie d’unto e di muffa
e polvere, e facchini.
Eppure si sa che fuori dall’uscio, oltre le case grigie,
oltre la nebbia, oltre l’odore di ruggine,
aspro brulica il mare,
ma non è il caso di sbattere forte le ali
né di gemere come la pioggia che si uccide sui tetti,
nel riluttante spegnersi del giorno
è più opportuno fingersi uguali
al gatto, e fare le fusa, e sonnecchiare.
Dalle panche dell’osteria non si fa ritorno
ma il fumo dell’osteria raggiunge la luna.
Gian Luigi Falabrino
Menzione speciale sezione “poesia edita”
KUGLUF
Giovanna Zontar, slovena, nata
nell’Ottocentonovanta, a Trzic,
vicino a dove adesso passa il confine
con l’Austria. Era emigrata
come tanti contadini, era andata
a fare la serva a Vienna, al Cairo
e poi, nel Tredici, a Trieste.
Giovanna Zontar aveva visto morire
l’impero facendo la cuoca per una famiglia
austriaca, aveva visto venire l’Italia,
andare il fascismo al potere,
e lei continuava a servire.
Giovanna Zontar veniva da noi
(e ci sembrava già vecchia)
a fare i lavori di casa
e specialmente il bucato,
quando bisognava mettere l’acqua calda
nella vasca, il turchinetto e la liscivia
e strizzare le lenzuola con l’olio di gomito.
Chissà in che cosa Giovanna Zontar di Trzic
era diversa dalla Rosa di Sampierdarena
che avevo visto strizzare con smorte
forze il bucato, dopo averlo sbattuto sull’asse
del mastello e lavato con liscivia e turchinetto.
(Dopo l’8 settembre i tedeschi avevano staccato
Trieste Udine e l’Istria dalla Repubblica Sociale
e istituito il Litorale Adriatico, Adriatisches
Küstenland,(1) il nome di prima del Diciotto,
con il suo Gauleiter e la radio che mandava in onda
“Trieste saluta Vienna, Wien grüsst Triest”
e trasmetteva il notiziario anche in sloveno,
per cercare simpatie fra gli antichi sudditi).
Allora vedemmo Giovanna Zontar piangere:
“Xe venti ani che no podèvimo parlar nostra lingua
– disse nel suo duro triestino — e anca carsoline
che vien a vender late in zità finiva in chèba
se le cucava a parlàr per sloveno tra lori.
E ora xe prima volta che sento mia lingua per radio”(2),
diceva Giovanna Zontar piangendo,
perché perfino i tedeschi un’ingiustizia
riparavano dei miei connazionali.
L’ultimo anno di guerra Giovanna Zontar
faceva la povera torta di riso nella forma
che era stata del Kugelhupf di cioccolata,
che lei chiamava kugluf,(3) surrogato di nome
per un surrogato di dolce. Insieme mangiavamo
pane e lardo, e sembrava che mai la guerra
dovesse finire, con gli allarmi, le bombe,
il cartone al posto dei vetri, il buio,
il carbone di legna, la ila per il pane.
“No la stia bazilàr, chi bazila mori”(4),
Giovanna Zontar slovena diceva a mia madre
sempre paurosa, sempre preoccupata.
E borbottava del mondo che aveva visto
dalle cucine di Vienna, del Cairo e di Trieste,
e aveva imparato che gli uomini xe tuti uguali,
cambia le bandiere e niente cambia,
e i pòveri quei ga sempre de bazilàr.
Kugluf la chiamavamo, noi ragazzi.
Aleksij Pregarc
Menzione speciale sezione “poesia edita”
CADAVERE CON BISACCIA
un mendicante si trasformò in ladro
e il ladro rubava
e riempiva la bisaccia
dimenticando le ristrettezze
ma non si accorse
che il vicinato gli invidiava
la crescente rotondità della bisaccia
eppure rubare è così naturale
storcere il furto in dolce pentimento
poi onorato e puro
librarsi nel cielo
e il ladro andò in paradiso
con la sua bisaccia d’oro
lasciando agli invidiosi un cadavere di sogni
Antonio Tirri
Menzione speciale sezione “poesia edita”
N. 51
Gerusalemme
città della pace
Tempio di Dio sulla Terra
rivolgi il tuo pensiero
al Signore
e purifica le tue strade
e la tua terra
dal sangue dei tuoi figli
morti per la tua vanità.
Tu hai abbandonato
le vie del Signore
hai dimenticato le Sue parole
e i Suoi Comandamenti.
Gerusalemme
dov’è la tua pace?
Tu non parli
parole d’amore
ma la tua lingua
detta leggi di fuoco
che avvampano l’animo
e le menti.
Tu eterna
città di Dio
dilaniata dal furore di uomini
che hanno perso il timore
di Dio.
Tu prediletta casa
del Signore
non emani più
profumi di offerte
d’allegrezza
ma la tua aria
ha l’odore putrido di cadavere.
Tu amata sposa
dell’uomo giusto
hai riposto il sorriso
gentile della purezza
e i tuoi occhi
son velati.
Ascolta, Gerusalemme,
il lamento del Signore
e ricorda
quel che ti disse
un tempo lontano.
Rivolgi, Gerusalemme,
la tua mente
al Signore
implora il Suo perdono
per i tuoi peccati,
chiedi che la Sua benedizione
ricada su di te
e affidati alla Sua misericordia
come fecero i tuoi Padri.
Gerusalemme
città di pace
in te dovrà compiersi
la volontà di Dio
che è volontà di pace
di amore, di giustizia
di fratellanza.
Ascolta, Gerusalemme,
la voce del Signore
e segui le Sue vie.
Sii santa
come il tuo Dio
e fa’ che sulla tua terra
scorra latte e miele
e non il sangue
dei tuoi figli e fratelli.
Il Dio di Abramo
di Isacco e di Giacobbe
è il Padre
di ogni essere vivente
e saprà parlare
al cuore degli uomini
di buona volontà.
Eugenio Pilutti
Primo classificato sezione “poesia inedita”
CANE DI GALILÈE
Si vin sintût avodâs
a un distìn masse grant,
par un panèt di tiare impastàde,
tirade su a man
su la traine di un torniu…
Erin zàris
la-jù in Galilèe.
No èrin prontis
al vin prufumât
in sgâmbiu
dal nostri séi âghe,
e no si devin pensêr
pa la nostre vergogne
di creps plens di nuje,
sujâs
da li bramis dal mont…
“Jemplêt” — Ti âs dite Signôr,
no savarìn mai
se in rispièt
dal malstà di une mâri,
o pa l’astîl
masse a lunc scjafoât,
di scuminsâ a darâ
li piartìis dal tîmp…
“Jemplêt…”
e di colp
no èrin pi zàris
e croste salade di tàrtar,
ma èrin òrnis,
di arzent e di ôru,
e prufùn, e fieste, e ligrìe,
pa la prime volte
che ti vìn cugnussût,
o Signôr…
CANA DI GALILEA
Ci siamo sentiti coinvolti/ in un destino troppo grande/ per un pane di argilla impastata/lavorata a mano/ nel movimento infinito del tornio…/ Eravamo giare/laggiù in Galilea…/
Non eravamo pronte/ al profumo del vino/ al posto/ del nostro essere d’acqua/ e non c’era preoccupazione/ per la nostra vergogna/ di cocci pieni di nulla/ prosciugati/ dai desideri del mondo…/
-“Riempite”- hai detto, Signore,! e non sapremo mai/ se accadde nel rispetto/ del disagio di una madrei o per l’impulso/ troppo a lungo soffocato/ di cominciare ad arare/gli infiniti campi del tempo…
-“Riempite… “-/ed improvvisamente/non eravamo più giare/ incrostate di tartaro/ ma eravamo urne/ d’oro e argento/ e profumo, e festa ed allegria/ per il primo nostro incontro/ con te, o Signore…
ÉMAUS
Sumiâsi
di ciaminâ soresere
discorînt
da la piere savoltàde
e dai sêns di malinconie
pal sintîsi uàrfins
da la Vôs
che veve ciaressât la Galilèe…
Sumiâsi
di séi sintâs
ta une ostarie di Émaus
cu l’inciant di un forest
ch’al scoltève
a propôsit dai marum
ch’al veve implenât il côr e il mont…
E sveâsi
come prins testemonis
dal pan crevât
come ta l’ultin da la Sene,
e tornâ a provâ la dolcesse
dal cognossiTi,
Signôr, come che Ti eris simpri stât:
a la mari cui semplis
e fiêr
di front ai gràinc’
che domenèvin
il podé dal polvar…
Eri propite iò,
Signôr,
un dai dòi
sintâs di front,
che mi partirai diluncsù tai sécui
l’amaresse
di no ve-Ti cugnussût,
come se il côr,
al vés dat in consegne
a li fuèis da l’autun,
li speransis e la siartesse
di sta insieme par simpri.
E cuantis voltis
ai sussedarà ancemò
di passaTi vissin,
di ciaminâ insieme,
di discori a taule
sense sintî il respîr di Diu,
ta al To vôs,
ta li Tôs mans,
Signôr…
Sense vê la furtune
dai vuàrps di Geric
che tal scûr dal siò mont
àn vût côr di viòdiTi…
E àn vude la Lûs
par simpri…
ÉMAUS
Sognarsi, /di camminare, sul far della sera,/ discorrendo della pietra rovesciata/ e del senso di malinconia/ nel sentirsi ormai privi/ della Voce/ che aveva accarezzato la Galilea… /
E sognarsi / di essere seduti / in un’osteria di Emmaus / affascinati da uno sconosciuto/ che ci ascoltava/ riguardo all’amarezza / che aveva riempito il cuore ed il mondo…/
E svegliarsi/ come primi testimoni / del pane spezzato / come alla fine della Cena / e provare ancora la dolcezza / del conoscerTi / Signore,/ come Ti eri sempre rivelato/ spontaneo con i semplici/ e forte di fronte ai grandi / che controllavano il potere della polvere…/
Ero proprio io,/ Signore / uno dei due/ seduti di fronte a Te,/ che si porterà lungo i secoli/l’amarezza / per non averti riconosciuto,/ come se il cuore avesse consegnato/ alle foglie d’autunno,/ le speranze e la certezza/ di stare insieme per sempre./
E quante voltei accadrà ancora! di sfiorarTi/ di camminare assieme/ di parlare a tavola/ senza sentire/ il respiro di Dio/ nella Tua voce,/ nelle Tue mani, Signore…/
Senza nemmeno avere la fortuna, /dei ciechi di Gerico/ che nel buio del loro mondo/ sono riusciti a vedetTi…/ E hanno avuto la Luce! per sempre…
“CUI CH’AL È SENSE COLPE”
No vevi mai vidût
scrivi tal polvar
cul sèn di un dêt,
cuasi che la me vite
al fòs un zòuc
di pissui clàs
savoltâs
– dret e ledrôs –
da li mans bramosis
dai frus….
Come se vendi amôr
al vès il valôr
di une vite,
Ti àn partât
tal pantanàs da li lès
– justìssie dai òmis –
mitînt a judìssi
un grunùt di stràs
sdramassât a pel tiare….
E adès no sai pi,
se eri jò
cul frêt savôr dal clàp
a’ bussâmi la man,
o se invèssi
eri jò
scufulìde
ta la memorie dal polvar
ingrisignìde li spalis
in spiete dal colp,
savôr ars di condàne…
E Tu?
Ti às sgiavât tal profont
di ogni jèssi,
sense vôs di condane,
ma cu la siartèsse dal jùst:
Cui ch’al è sense colpe…
E cuant mai
Signôr,
sarin sense colpe
e cu la pretêse di jùdis
“CHI È SENZA COLPA?…”
Non avevo mai visto scrivere nella polvere I tracciando segni col dito,/ come se la mia vita! fosse un gioco/ di piccoli sassi/ lanciati e rilanciati / — dritto e rovescio/ da avide mani di bimbi…/
Come se vendere amore/avesse pari valore/ di una vita / Ti hanno portato/ nel terreno infido delle leggi / — giustizia degli uomini — / ponendo al tuo giudizio/ un mucchietto di stracci stramazzato a terra…/
Ed ora non so più, se ero io che sentivo nella mano/ il freddo bacio della pietra, / o se invece ero io / rannicchiata / nella fredda memoria della polvere / con le spalle contratte/ in attesa del colpo, / impietoso sapore di condanna…/
E Tu?
Tu hai scavato in profondità / in ogni essere/ senza toni di condanna / ma con la certezza del giusto:/-” Chi è senza colpa…” –
E quando mai,/ Signore,/ saremo senza colpa,/ ma con la pretesa di essere giudici / saremo pronti / a scagliarci contro il fratello / che ha scavalcato / i confini oltre il peccato…?
Un sasso contro di Te,/ mio Signore/ che hai letto ogni malvagità/ dietro i bianchi mantelli/ della gente/ cominciando da un segno/ messo giù quasi per caso/ nella polvere/ ancora prima di alzare la testa/ e sapere…
Anna Rita Pinto
Menzione speciale sezione “poesia inedita”
I
>/ se bastassero le parole
non ci serviremmo
dei silenzi… …
se questi arrivassero
al cuore,
la mente
non avrebbe bisogno
di fare l’amore
II
>/ come saprei amarti uomo.
E per un gioco di ruoli
A cui sapremmo sottostare
Non potrei
Che perdermi
Fra le tue gambe con la dignità
Di una lolita e
Farmi succhiare i seni
Con la dolcezza
Di una madre
III
>/ ogni giorno porto
a te il mio saluto e ogni notte,
quando la mente si piega
alla luna
porto a te il mio desiderio
e non basteranno tempeste di sabbia
sul cuore
a farmi temere
il deserto
e non vi sarà caldo afoso
nella gola
a farmi bere altra acqua
se non dalle tue mani.
Guardami, se prima dell’amore
laverò per te
col latte le mie gambe
e sii fiero, se chinandomi
a te, offrirò ai tuoi occhi
il mio orgoglio da spezzare
Marianna De Micheli
Menzione speciale sezione “poesia inedita”
MILANO
Milano,
scendo dal treno, sono a casa;
io conosco quel muro
lo costeggiavo bimba con mia nonna,
questa piazza e questa via
ci passeggiavo dodicenne,
e in questo prato, su questa statua
con mio nonno ho imparato a camminare.
Milano,
tienimi qui e non mandarmi via
non mandarmi in città sconosciute
dai muri assassini,
ci sono nere strade e neri prati dove sprofondo.
Tienimi tra le tue braccia d’acqua
da ieri e per sempre sarò Milanese.
TANGO PARA DOS
Mi volteggi eti volteggio.
Le nostre guance unite.
E come due gatti abbracciati
palpiamo il pavimento
i nostri corpi si abbracciano
e uniti, scivolano in un acqua calda ed effervescente,
Siamo una goccia di crema profumata alla magnolia
che scivola su di un corpo umido di bagno bollente.
Noi siamo i fiumi di quel bagno
che volteggiano nell’aria,
pesanti e leggeri corriamo sui soprammobili
senza farli mai cadere.
Noi siamo il mare che balle a tempo sullo scoglio
e Io rende morbido
e siamo quei piedi estivi che si modellano allo scoglio ovattato
e lo calzano.
Noi siamo una caramella messa in bocca alla musica,
sciogliendoci ci lasciamo assaporare
e siamo quella bocca che
famelica ci mangia.
FORSE È LA NEBBIA
Forse èla nebbia
Forse palazziinquietanti
Oforse è chenon c’è città,
non c’è paese
è che non si può non stupirsi
è che è bravo,
è che sempre più bravi,
uno dopo l’altro.
È che non interessa chi siamo
è che forse il cibo?
è che forse la gente?
È che forse nulla deve stupire?
o che forse aveva ragione Ciarli Braun?
A che numero siamo?
È che forse dovrebbe essere giunto il momento
che il figlio muore e io non piango.