“E dagli con questa fiction: continuano a propormela, e io continuo a rifiutarla…”. Così mi accoglie Paolo Bonacelli nel suo camerino del Teatro Cristallo di Trieste, dove sta portando a termine le repliche del “Ritorno a casa” di Harold Pinter. Affabile ed autoironico come sempre, saporitamente ilare a proposito della burocrazia legata alle cose dello spettacolo, è abbastanza logico che lo straordinario attore romano dalla voce caldissima non digerisca i Marescialli Rocca e i medici in famiglia: per lui che ha lavorato con Pasolini, Monicelli, Bolognini e Antonioni al cinema, e a teatro praticamente con tutti gli altri “che contano”, le rimasticature all’acqua di rose paiono davvero improponibili. Nello spettacolo adattato da Roberto Guicciardini per il Teatro Stabile di Sardegna (di cui Bonacelli è codirettore), quest’ultimo interpreta il cattivissimo patriarca Max: un pater familias che è meglio perdere che trovare, egoista e sanguisuga, che si lamenta dei figli mascalzoni senza rendersi conto che sono la sua copia carbone. In questa “famigliola” britannica tratteggiata da Pinter con il consueto gusto del paradosso e del grottesco, s’insinua la figura femminile di Helen (Ivana Monti), neo sposa del figlio che “ritorna a casa” e simbolo del subbuglio innestato in un “milieu” persino monotono nella sua nefandezza. Il linguaggio disincantato di Pinter ha provocato nelle repliche triestine non pochi mormorii in sala, e Bonacelli amaro mi dice: “Ma ti sembra possibile che un testo debba andare meno bene di quanto meriti solo perché ci sono le parolacce?”…
Ci conosciamo da alcuni anni, precisamente da quando nel 1992 portò a Trieste al Politeama Rossetti (e il regista era sempre Guicciardini) “Una solitudine troppo rumorosa” di Bohumil Hrabal, bellissimo testo- apologo sulla letteratura vista come salvataggio dell’umanità; in quell’occasione parlammo a lungo delle sue numerose esperienze a teatro e al cinema, e mi faceva venire i brividi quando accennava a Pasolini, al suo terribile ruolo di gerarca fascista “borghese” nell’altrettanto terribile “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, film testamento dell’autore friulano.
Nato a Roma nel 1939, Paolo Bonacelli ha costruito mattone dopo mattone una splendida carriera cinematografica e teatrale: diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, viene subito chiamato da Vittorio Gassman che nel cuore di quei turbinosi Anni Sessanta stava varando l’avventura del Teatro Popolare Italiano, autogestito e autofinanziato.
Bonacelli fu l’aviatore in “Questa sera si recita a soggetto” di Pirandello, e poco dopo fece coppia fissa artistica con Carmen Scarpitta; al cinema debuttò nel 1964 con la gustosissima caratterizzazione del “gagà” in “Cadavere per signora” di Mario Mattioli: primigenio esempio di una spiccata abilità per i ruoli magari delimitati ma originali.
La sua figura massiccia e imponente, unita ad una sorta di fragilità psicologica nei tratti del viso, ad una non comune ambiguità di atteggiamenti, ne hanno fatto l’interprete ideale di ruoli sfumati e inquietanti: il monaco silente di “Milarepa” di Liliana Cavani, la vittima del Caso Murri nei “Fatti di gente perbene” di Mauro Bolognini, lo stralunato collega di Giancarlo Giannini nel triste “Buone notizie” di Elio Petri, il perfido Ministro Bocchini nel documentaristico “Antonio Gramsci, gli anni del carcere” di Lino Dal Fra, l’arabo carognesco in “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, il romano volgarissimo nel discusso “Caligola” di Tinto Brass: un camaleonte di inestimabile lusso, a proposito della vecchia diceria secondo cui gli attori di teatro farebbero cortocircuito al cinema… Ma forse il Bonacelli che preferiamo è quello comico, dissacrante, sapientemente grottesco: del resto il pubblico più giovane lo “fisionomizza” essenzialmente come lo zio cocainomane di Roberto Benigni in “Johnny Stecchino”; un binomio, quello con Benigni, nato nel 1984 quando un irriconoscibile Bonacelli apparve nei panni dell’inventore Leonardo in “Non ci resta che piangere”, accanto a Massimo Troisi: un’apparizione di pochi minuti, rimasta nella memoria di quanti amano il buon cinema.
Attore della specie che lavora “dodici mesi su dodici”, Paolo Bonacelli dà il suo meglio nei testi iperrealistici o caricaturali, che riesce sempre a portare a termine apportandovi significativi contributi personali: di Pinter è ormai un habitué, dopo “Tradimenti” del 1986, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e il più recente “Terra di nessuno”(1995), uno dei pochi spettacoli degli anni Novanta che serberemo nella memoria: un’affascinante gara all’ultima battuta tra Bonacelli e Massimo De Francovich, attore di altra razza, intimista ed introspettivo così quanto Bonacelli è “outing”, anche se poi capace pure lui di raggiungere i territori algidi dell’ambiguità. Protagonista a teatro e caratterista al cinema, quindi: collocazione più che soddisfacente per un uomo innamorato del fenomeno- recitazione: “Recitare mi piace ancora molto, proprio come fenomeno umano”. E non a caso in camerino arriva un’ora e mezza prima dell’inizio dello spettacolo: per leggere, scrivere, sgranocchiare qualcosa, ricevere gli spettatori importuni come il sottoscritto. Parlando con lui, perde consistenza e peso la diceria secondo cui gli attori sarebbero, tutti, persone stupide e monocellulari, come dice Giorgio Albertazzi (che pure è un attore) “non piene di sé, ma assolutamente vuote di sé: vuote di qualsiasi cosa che non riguardi la loro arte, e quindi se non entri nella loro stessa lunghezza d’onda rischi di annoiarli, come loro annoiano te”.
Bonacelli non assume pose da Edmund Kean, non si dà alle scalmane prima di entrare in scena, non “si vive” come il portatore di un “verbo” o di una parola definitiva sul momento sociale recitativo: piuttosto si infastidisce se trova chiusi i locali dove gli hanno riferito “che si mangia bene”: perché è un “gourmand” di classe, un uomo attaccato alle sensazioni e alle situazioni reali della vita. Ricordo di essermelo trovato a sorpresa in alcune visioni televisive casalinghe: poco più che un cameo nel noiosissimo “D’Annunzio” di Sergio Nasca, improbabile dottore nello sfortunato “Topo Galileo” di Beppe Grillo (un comico televisivo impantanato nelle sabbie mobili del linguaggio filmico…), persino crapuloso proprietario di yacht nell’ultracommerciale “Rimini Rimini” di Sergio Corbucci, ma nello stesso periodo di nuovo all’opera con Liliana Cavani dopo sedici anni, per un ruolo di rarefatta intensità in “Francesco” a fianco di Mickey Rourke. Difficile dimenticare, inoltre, la sua performance in “Sole nudo” (1984) di Tonino Valerii, fatua cartolina turistica dal Brasile, dove Bonacelli compare nei panni di un cameriere — Grillo Parlante che filosofeggia davanti alle vetrate di un albergo che si affaccia sul Pan di Zucchero.
Oppure è stato un mafioso tutto da ridere nell’incompreso “Complicato intrigo di donne,vicoli e delitti” di Lina Wertmuller (1985), o un affiliato alla cosca mistico- religiosa di Ebe Giorgini, la “santona” delle cronache nere degli Anni Ottanta, in “Mamma Ebe” (1985) di Carlo Lizzani. Vederlo a teatro, invece, è un’esperienza impareggiabile per chiunque desideri da una serata non solo emozionalità e cultura, ma anche ironia e gustoso senso del satirico e del paradossale. Mi è piaciuto, e molto, come assatanato copulatore nella “Mandragola” di Macchiavelli, quattro o cinque anni fa sempre sotto il marchio del Teatro di Sardegna: lì a dargli “spago” era un arbiter elegantiarum del palcoscenico italiano come Cesare Gelli: mai riso tanto a teatro, grazie a due interpreti felici di recitare per un pubblico partecipe e plaudente.
Eppure nella mia caotica memoria di spettatore, Paolo Bonacelli è sopratutto il ricordo di un uomo very british, sprofondato in una poltrona di pelle, tra le mani un “flute” di champagne, grigio e impenetrabile come una sfinge egizia: l’impassibile protagonista, cioè, del pinteriano “Terra di nessuno”, di cui già relazionavo in apertura. Al “nostro”, triestino Massimo De Francovich, il compito di fisionomizzare la logorrea paranoide che ogni tanto elettrizza alcuni personaggi di Pinter, mentre poi i contorni si sfumano e tutte le pedine della scacchiera si marmorizzano per il saluto di congedo allo spettatore.
Non l’ ho visto, invece (problemi d’anagrafe…) in quella che mi riferiscono come un’eccellente versione del classico pirandelliano “Il gioco delle parti”, dove condivideva la scena con la compagna di lavoro prediletta, la brava e sensuale Carmen Scarpitta. Persa, stavolta per problemi di salute, la possibilità di vederlo condividere la scena con un altro grande, Arnoldo Foà, nella “Bottega del caffè” goldoniana.
Non sono molti, nel panorama teatrale nostrano, gli attori in grado di rendere anche attraverso la propria fisicità: se Gabriele Lavia e Giulio Brogi sono nell’immaginario collettivo di chi ancor si balocca tra i drappi rossi che s’usano a teatro come dei funzionali simulacri di nevrosi e tormento, se Ennio Fantaschini trasmette al solo vederlo un cospicuo senso di moderna complessità, e Giorgio Albertazzi è il dandy compiaciuto ed elegante di sempre, o ancora Glauco Mauri il simbolo stesso della sensibilità e della fatica di vivere dell’uomo indifeso, è a Paolo Bonacelli che personalmente assegnerei la palma del “bonaccione con riserve”: del perfetto esempio dell’uomo “quotidiano” fortemente impaludato nella propria rete di vigliaccherie e pigrizie inamovibili; con la possibilità, ovvio, di un riscatto sempre agognato.Sarebbe stato uno stupendo Oblomov, mentre in televisione chi meglio di lui avrebbe potuto ricoprire il ruolo del marito di Madame Bovary? Peccato che per il grande pubblico Bonacelli rimanga sempre una presenza un po’ delimitata al rango caratteristico: e lui davvero non è tipo da “vendersi ” o “pubblicizzarsi” più del dovuto.
Una volta sceso dal palcoscenico, come con sincera ammirazione si è già detto, Bonacelli smette i panni che gli sono stati assegnati per guardare al prossimo con quell’occhio vagamente perplesso e irresistibile: basta che apra bocca, poi, perché chi ama il teatro vada in brodo di giuggiole: avvolti dall’aura accogliente della sua vocalità, possiamo nuovamente immergerci nell’autunno triestino, con una bella esperienza in tasca in più.