Il cuore, il limite
Romano, mi rifugerei sulla costa, via dalla vita pubblica,
l’avidità, il potere, la sinistra brama
dell’ambizioso, tutti i tristi bisogni
che quasi tutti hanno, semplicemente per essere ricordati.
Subdoli o scontenti, conduciamo
le nostre ignobili trattative in un vicolo, tagliando gole
per un po’ di spiccioli, per poi vomitare ancora
sul pavimento di una misera locanda.
Mi rifugerei ad Ercolano, dove risiederei con cinismo,
i grandi eventi così al di là
del mio pensiero o del mio desiderio. A poco a poco
costruirei una casa disegnata da me.
Tra la montagna e il mare, le mie reti appese sotto gli ulivi,
pescherei un po’, dormirei molto, contemplerei l’uva,
darei uno sguardo di lontano alle cose della città, e scriverei.
Elogio alla vodka
Il sapore dicono perché devono
o sentono che devono così dicono
così dicono dicono non ce l’ha,
non c’è sapore, solo acqua.
Acqua il lago di vetro su cui Cristo ha camminato,
la coppa in cui Erode si lavò le dita,
la pioggia che cadde sulle rovine di Troia,
l’ultima parola, l’ultimo balsamo dei viventi.
La stessa acqua, ancora e ancora. Dicono
perché dicono perché devono quindi dicono
si sta esaurendo, seccando, ma c’è n’è sempre
la stessa quantità di sempre.
Siamo noi ad essere di più. Per quanto mi riguarda
ho passato tutti i miei giorni cercando di capire
quello che a Miss Peaches potesse piacere
e mi spetta un giorno di riposo per il resto della mia vita.
Perciò fuori dal freezer la bottiglia, la bottiglia
verde coperta di brina, la targhetta ghiacciata in cirillico,
il bicchiere, e l’acqua accanto al bicchiere.
Russische. Moskovskaya. Stolichnaya.
Quindi questo è il sapore del niente:
niente e poi ancora niente. Niente di niente.
Il sapore dell’aria, del vento sui campi,
il vento attraverso l’estesa foresta umida.
Un ruscello e la pioggia. Mi distendo in giardino
ed apro la bocca alla luna ed alla pioggia che viene giù
e le sue parole parlano al di sopra della mia lingua
all’interno della mia gola e dicono
Voda
Acqua
Vodka
Voda
Acqua
Vodka
Nella via accanto
C’è sempre e soltanto un unico litigio: il suo,
e contraddice chiunque intervenga nei
brevi intervalli interrotti dalla sua ostinazione,
qualcosa di mai sentito, forse la ragione.
Ciò che non avrai mai è il silenzio,
sempre qualche lamento all’orizzonte
al limite dell’attenzione
dove sarebbe tranquillo se lo permettessero.
Sempre qualche conversazione lontana,
straniera, banale, teatrale, tradotta
significa mia moglie si chiama Judit.
Sono un ingegnere di Spidertown.
Che rispondere? Vostra Maestà
il mio nome è Smith. Tutte menzogne comunque,
tutto quello che facciamo è ubriacarci, le serate finiscono
crollando malamente nei canali di scolo.
Beviamo al silenzio, dove le stelle meditano.
Beviamo alla musica della pioggia sul tetto.
Beviamo alle madri, agli amanti, ai fratelli, ai bambini,
alla candela che si consuma
finché qualcuno non la spegne. La distanza
non fa nessuna differenza, la stessa sete
d’amore e soldi, la colonna vincente
della lotteria nazionale come un ago nel cervello.
E poi ne ho abbastanza. Voglio
andare a casa adesso, lontano, reinserirmi nelle prese di corrente,
il merlo, la sera che sussurra storie a se stessa.
Ogni cosa al suo posto, le falene,
il topo nella trappola. E
nella via accanto lo stesso vecchio litigio.
È sicuro di avere ragione.
In cerca della costante
(ad Alan Sandage, astronomo)
Fu la migliore vita possibile,
gran parte della quale trascorsa disteso notte dopo buia notte
nel freddo e duro rifugio sulla montagna
sotto i 200, osservando come un ragazzo attonito
lo stesso ragazzo con l’orecchio al traliccio del telefono
che ascolta attraverso i fili il canto
delle parole nel legno, guarda le stelle,
sempre più lontane tra i gioielli del tempo.
La vita di un bulbo oculare. Una vita di misurazioni,
tenendo conto dell’angolo, l’età, la velocità e la distanza,
le polveri nere, le curvature, la foschia cittadina,
e tutto in movimento, alla deriva, distante, in orbita con se stesso
e con qualsiasi altra cosa ci sia oltre il limite sbiadito
che riusciamo a malapena a vedere, dove per noi le luci
non sono ancora accese, nel loro lungo legame con l’infinito
osservando le galassie lontane respirare.
Fu una vita nobile, una lunga tradizione
prima e dopo di coloro che si chiedevano perché
e che cos’è tutto ciò? Fu un sogno,
la ricerca di una misura nelle distanze spietate,
rannicchiato nella mia fredda gabbia tra le stelle
da cui noi tutti siamo stati fatti, ed io ero parte
di quel divenire, niente di impossibile
essere qualcosa che possa capire se stesso.
Il resto fu freddo calcolo: mappe, carte,
rilievi. Ho cercato una costante, il rapporto
velocità /massa che significava la creazione,
assottigliatosi per sempre fino al buio e silenzio
o collassato ed esploso di nuovo,
l’espirare e l’inspirare,
una simmetria. Ci dev’essere una ratio,
se non un dio d’amore un dio di significato.
Ad ogni modo, questa è la verità per cui propendo.