I poveri alla stazione
degli autobus
I poveri viaggiano. Alla stazione degli autobus
allungano il collo come anatre per guardare
le insegne degli autobus. E i loro sguardi
sono di chi ha paura di perdere qualcosa:
la valigia che custodisce una radio a pile e un giaccone
che ha il colore del freddo in un giorno senza sogni,
il panino di mortadella in fondo alla borsa,
e il sole di suburbio e polvere oltre i viadotti.
Fra il rumore degli altoparlanti e l’ansare degli autobus temono di perdere il proprio passaggio
nascosto nella nebbia degli orari.
Quelli che sonnecchiano nelle panche si svegliano spaventati,
sebbene gli incubi siano un privilegio
di coloro che riempiono le orecchie e il tedio degli psicanalisti
in studi asettici come il cotone che chiude il naso dei morti.
Nelle file i poveri assumono un’aria grave
che unisce timore, impazienza e sottomissione.
Come sono grotteschi i poveri! E come i loro odori
ci infastidiscono anche da lontano!
E non hanno la nozione delle convenienze, non sanno stare in pubblico.
Il dito sporco di nicotina strofina l’occhio irritato
che del sogno ha trattenuto solo la cispa.
Dal seno cadente e turgido un filo di latte
scorre in una piccola bocca abituata al pianto.
Nella piattaforma degli autobus vanno e vengono, scavalcano e stringono valigie e pacchi,
fanno domande inopportune agli sportelli, sussurrano parole misteriose
e contemplano le copertine delle riviste con l’aria stupita
di chi non sa la strada del bel salone della vita.
Perché questo andare e venire? E questi vestiti stridenti,
questi gialli di olio di dendê che fanno male agli occhi delicati
del viaggiatore obbligato a sopportare tanti odori fastidiosi,
e questi rossi contundenti di mercatini e fiere?
I poveri non sanno viaggiare né sanno vestirsi.
Tanto meno sanno abitare: non hanno la nozione del comfort
sebbene alcuni di loro possiedano persino la televisione.
In realtà i poveri non sanno neppure morire.
(Quasi sempre hanno una morte brutta e inelegante.)
E in qualsiasi parte del mondo danno fastidio,
viaggiatori importuni che occupano i nostri posti
anche quando siamo seduti e loro viaggiano in piedi.
Asilo Santa Leopoldina
Tutti i giorni ritorno a Maceió.
Arrivo sulle navi scomparse, sui treni assetati, sugli aerei ciechi che atterrano solo all’imbrunire.
Nei chiostri delle piazze bianche passeggiano granchi.
Fra le pietre delle strade scorrono fiumi di zucchero
che fluiscono dolcemente dai sacchi immagazzinati del porto
e rischiarano il sangue vecchio degli assassinati.
Appena sbarco prendo la strada del manicomio.
Nella città in cui i miei antenati riposano in cimiteri marini
solo i matti della mia infanzia sono vivi e mi aspettano.
Tutti mi riconoscono e mi salutano con grugniti
e gesti osceni o rumorosi.
Vicino, nella caserma, la tromba che stride
separa il tramonto dalla notte stellata.
Languidi i matti danzano e cantano fra le inferriate.
Alleluia! Alleluia! Oltre la pietà
l’ordine del mondo risplende come una spada.
E il vento del mare oceano riempie i miei occhi di lacrime.
Imbrunire a Maceió
La notte cade: il pallido semaforo
resiste all’ombra che circonda la terra.
Il mare scompare nel naufragio
del giorno trionfante e delle navi.
E di tutto quanto era vita e clamore
e dolore di uomini, e gesto d’amore
perso per sempre, rimane solo
il languore del cielo crepuscolare.
I poveri alla stazione
degli autobus
I poveri viaggiano. Alla stazione degli autobus
allungano il collo come anatre per guardare
le insegne degli autobus. E i loro sguardi
sono di chi ha paura di perdere qualcosa:
la valigia che custodisce una radio a pile e un giaccone
che ha il colore del freddo in un giorno senza sogni,
il panino di mortadella in fondo alla borsa,
e il sole di suburbio e polvere oltre i viadotti.
Fra il rumore degli altoparlanti e l’ansare degli autobus temono di perdere il proprio passaggio
nascosto nella nebbia degli orari.
Quelli che sonnecchiano nelle panche si svegliano spaventati,
sebbene gli incubi siano un privilegio
di coloro che riempiono le orecchie e il tedio degli psicanalisti
in studi asettici come il cotone che chiude il naso dei morti.
Nelle file i poveri assumono un’aria grave
che unisce timore, impazienza e sottomissione.
Come sono grotteschi i poveri! E come i loro odori
ci infastidiscono anche da lontano!
E non hanno la nozione delle convenienze, non sanno stare in pubblico.
Il dito sporco di nicotina strofina l’occhio irritato
che del sogno ha trattenuto solo la cispa.
Dal seno cadente e turgido un filo di latte
scorre in una piccola bocca abituata al pianto.
Nella piattaforma degli autobus vanno e vengono, scavalcano e stringono valigie e pacchi,
fanno domande inopportune agli sportelli, sussurrano parole misteriose
e contemplano le copertine delle riviste con l’aria stupita
di chi non sa la strada del bel salone della vita.
Perché questo andare e venire? E questi vestiti stridenti,
questi gialli di olio di dendê che fanno male agli occhi delicati
del viaggiatore obbligato a sopportare tanti odori fastidiosi,
e questi rossi contundenti di mercatini e fiere?
I poveri non sanno viaggiare né sanno vestirsi.
Tanto meno sanno abitare: non hanno la nozione del comfort
sebbene alcuni di loro possiedano persino la televisione.
In realtà i poveri non sanno neppure morire.
(Quasi sempre hanno una morte brutta e inelegante.)
E in qualsiasi parte del mondo danno fastidio,
viaggiatori importuni che occupano i nostri posti
anche quando siamo seduti e loro viaggiano in piedi.
Asilo Santa Leopoldina
Tutti i giorni ritorno a Maceió.
Arrivo sulle navi scomparse, sui treni assetati, sugli aerei ciechi che atterrano solo all’imbrunire.
Nei chiostri delle piazze bianche passeggiano granchi.
Fra le pietre delle strade scorrono fiumi di zucchero
che fluiscono dolcemente dai sacchi immagazzinati del porto
e rischiarano il sangue vecchio degli assassinati.
Appena sbarco prendo la strada del manicomio.
Nella città in cui i miei antenati riposano in cimiteri marini
solo i matti della mia infanzia sono vivi e mi aspettano.
Tutti mi riconoscono e mi salutano con grugniti
e gesti osceni o rumorosi.
Vicino, nella caserma, la tromba che stride
separa il tramonto dalla notte stellata.
Languidi i matti danzano e cantano fra le inferriate.
Alleluia! Alleluia! Oltre la pietà
l’ordine del mondo risplende come una spada.
E il vento del mare oceano riempie i miei occhi di lacrime.
Imbrunire a Maceió
La notte cade: il pallido semaforo
resiste all’ombra che circonda la terra.
Il mare scompare nel naufragio
del giorno trionfante e delle navi.
E di tutto quanto era vita e clamore
e dolore di uomini, e gesto d’amore
perso per sempre, rimane solo
il languore del cielo crepuscolare.