L’Arcano di Pristina
1.
Dura come tutto ciò contro cui lottiamo
la loro soluzione: un millepiedi
gigantesco nella mente cibernetica.
E il mio povero amico kosovaro?
Polvere su una strada spazzata dal vento.
Dove le urla dei morenti,
dove la ragione è pari al potere in mani folli,
come ci è possibile, come possiamo, volere?
le nostre voci fatte a pezzi,
sparse l’una dentro l’altra
e così sorde alla pioggia di bombe
sganciate sui cristi di allah crocifissi.
Essi scuotono il mio corpo, accartocciano le mie forme.
Linee, linee, linee da casa alla
mancanza di casa. Missili che cadono
proprio attraverso i tetti del pensiero
facendolo scoppiare riducendolo a scheletro.
Il silenzio di un fiume messo al muro
e fucilato.
Pagnotte lanciate come briciole
verso mani che si agitano.
Eri così colta, eri un dominio.
E tali orrori sono stati rivolti a te.
Ora drogata, piramidizzata,
morente per lo squallore che non è povertà
– squallore e schifo,
in ginocchio –
inondata da invasori stranieri.
Quando una volta pensavi
al Kosovo, pensavi: incontaminato,
ora il mirino delle bombe è l’unica visione d’insieme
e il personale diventa
nazista nelle gonadi del dio
morto impazzito, ricreato
dalle nostre dita che eseguono gli ordini,
il pulsante delle bombe sia il suo nome.
Vi vedo uscire a fiotti da Pristina.
Che ironia: quei bunker paranoidi
lungo la linea del tuo confine,
Nilbania, diventeranno rifugio
per i senza tetto. O Kosovo,
sei dovunque e in nessun luogo ora,
cadi nella nostra morte fatta di fosse,
cadi fra noi smembrato,
prendendo posto nel martirio
eterno.
Coloro che hanno il potere delle bombe,
che possono obbligarci ad aggrapparci alla sopravvivenza
dopo aver demolito la nostra esistenza,
avendo da tempo innestato la seconda pelle
dove la ferrea volontà e l’indifferenza
vanno mano nella mano
seguono furtivamente il millennio,
il destino che hanno scelto per noi: diaspora
dura come tutto ciò contro cui lottiamo.
2.
Questa notte, perché questa notte
è più che buio, questa
notte tecnologica che ormai dura tutto il giorno?
Esplosioni di bombe e fiamme sulla
faccia del mondo,
dolorose file di rifugiati,
e scorte di anòdino sulla punta delle dita:
il peso di notte di un nuovo libro,
il tocco di piuma di un a braccio che cinge la vita
a primavera.
Ma l’essere morto negli occhi
che cresce nel cuore che batte verso la notte,
il torpore dall’essere nelle cose
dalle quali ci si era allontanati,
la fine che non arriva, ma già
si presenta come la presenza
dell’inevitabile notte, petalo dopo petalo
si sfoglia — il fondo stesso di ogni istante
cade: anni, vite.
Anche il tuo fondo fiorisce
nel mio palmo mentre percorriamo questa
strada planetaria nella guerra del Kosovo
tanto vicino ai nostri volti il vuoto ci accompagna
silenziosamente, orribilmente.
Interi popoli che non valgono più
di un fertilizzante, morendo sussurrano:
“Andate via. Non voglio più sentire l’inglese.”
Il loro sangue su di noi, le loro braccia che si tendono
in cerca di pane.
La mucca sta sul giovane morto
che non volle scappare proprio per lei.
Il cavallo in fiamme.
La pecora ormai cenere.
In questa notte resa prioritaria da una generazione
di istanze distratte, appagamento
della seconda coscienza:
il duro, crudele, intrattabile
immobile in movimento,
anche noi costretti ad indossare la pelle di insensibili
al dolore di un popolo gettato via
Hello
nelle fosse comuni
Hello
sotto inconcepibile indegnità
Hello
“Ma noi stiamo in piedi sui ponti con i segnali di bersaglio
dipinti sul petto questa notte
nella notte di questa apocalisse
tecnologica, ci avvolgiamo il collo
con sciarpe di sfida contro il nodo scorsoio
lanciato intorno al collo del mondo.
Il mio nome scivola nel nome di quello
che mi sta accanto — monumentale dignità di questo
definente atto di anonimità, coraggio
e indignazione.
Viscere alte sopra la testa si stanno aprendo
con i loro carichi di merda da terre di merda,
quel fascio di vanagloriosi che non sono altro,
come la merda che tengono accesa
nelle bocche,
la merda di morte nelle bombe
che quegli stronzi hanno rafforzato
nello scoppio di ciò che era
ancora calmo, ora non più
Hello
su ciò che era ancora possibile
Hello
sulla gioia piena di significato intorno a un litro
di vino fatto in casa
Hello
Ora beviamo sangue, strisciamo con i cani
ci rannicchiamo con le teste rotte, ricordiamo
le porte attraverso le quali entrava il sole
mai più la luce gentile
né l’albero vicino al quale la mucca e la pecora
sedevano nell’ombra estiva, e il ruscello –
O ruscello, chi ha potuto assassinarti così
senza pietà insanguinarti completamente
riempiendoti di corpi,
O cielo, come potremo guardarti di nuovo
eccetto che nella sfida di questa notte
che è stata lanciata in ognuno, poverissima.
O poeta, conficca la tua penna nel pane
e pugnalalo come il coltello di questa notte
ha dato inizio all’infinita pugnalata
del popolo del mondo,
pugnala e dì che c’è solo il giro
non compiuto del corso finale del destino,
che il nulla a cui tutto questo ammonterà
questa volta non potrà essere percepito
e apostrofato dopo, che questa notte
è la notte diversa,
questo nulla
è per sempre.
Hello
3.
E come
dovrebbe dirlo?
No, lei deve parlare d’altro,
della retata degli abitanti del villaggio,
i loro assassinii davanti ai suoi occhi,
gli alberi in fiamme,
il ragliare dei muli, le criniere dei cavalli
che bruciano fino ad arrivare all’inferno.
(Aiutala, Shanda,
con la tua lingua la vittima
forzata della più oscura
mente-serpente dell’uomo che ancora serpeggia
davanti al cazzo eretto della canna del fucile,
che fa il saluto nazista alle stupide
bombe intelligenti; aiutala a raccontare
del taglio sulla sua faccia,
dei brandelli strappati
del pudico tentativo di coprirsi,
dell’essere stata buttata
a terra tremante, braccia
tenute giù da braccia, gambe aperte e
tenute giù e, sotto gli occhi
della madre e del padre,
uno dopo l’altro, maschere nere
che la fendono…
Resta con lo sguardo urlante
ai bordi del campo,
rifugiata libera e distrutta,
che non può tornare
– il vero inferno dello stupro –
che non può tornare:
Iqbala Laverda, 24 anni,
che non si è mai arresa alla sua apertura
sebbene squarciata,
forzata con una leva,
infilzata con i loro bastoni,
un brivido da toccare,
sorella a uno sputo,
il muro dentro di lei ancora più spesso
contro il filo spinato del campo
e davanti a lei fin dove il suo sguardo
arriva verso est:
migliaia, milioni chini,
teste che vanno su e giù.
La tua lingua, Shanda, che all’improvviso
spunta dalla sua bocca,
lecca la zuppa calda
nella sua scodella d’alluminio,
voi due come un unico paradigma
delle schedate, allineate,
battute, fatte a pezzi,
depredate, sconvolte e saccheggiate
nell’essenza del rifiuto.
Quanto hai visto, ragazza kosovara,
quanto hai visto?
Abbastanza per farti fare un giro
nel vortice della morte.
Chi incontreremo lì, ragazza kosovara,
chi volerà con noi mentre giriamo?
Non chi, ma brandelli di corpi che amarono
e cani e cavalli in fiamme.
Quando finirà, ragazza kosovara,
quando si placherà la tempesta.
Mai. Tormenteremo gli anni
fino a che si arrenderanno, e non smetteremo.
Ma ragazza kosovara, loro avanzavano, noi difendevamo
perché stai seduta così amareggiata?
Rimango alla culla di terra del mio bambino morto
come un’inutile bambinaia.
Mi chiedi cosa ho visto lì
come se non lo sapessi.
Queste mani ai fianchi sono tutto ciò che sentirai.
Adesso vai, vai, vai.
4.
I becchini
sono al culmine della loro attività nelle città di confine.
Flaka, che è morta a un anno.
Una stele di legno, una stele di legno,
un pezzo di caramella sulle sue piccole ossa.
Isuf, 10 anni, morto da poco.
Iliaz Hoxa, dopo la tortura e il dramma,
non aveva più dell’adolescenza il trauma.
Una mano callosa, quella di suo padre,
si muove sul suo volto in senso orario,
la tomba improvvisata in direzione de La Mecca.
Thunkk, thunkk, thunkk fanno le vanghe
dei becchini giorno e notte.
La loro bandiera è internazionale ora.
Pali di legno alla testa e ai piedi.
E per i nomi, un ragazzino che mescola inchiostro
in una bottiglia di coca-cola decapitata.
O bambino già con un’intera vita
negli occhi, e la morte così vicina
da non farti conoscere altro.
Quanto velocemente sei passato dal latte al caffè amaro
a questo fiasco di vino
rubato a un soldato morto.
E una pistola nei calzoni vicino all’anca.
Nella campagna intorno quelli come te.
Infanzia che debolmente torna a
vestiti stesi ondeggianti nella brezza,
un sole immacolato in un limpido cielo azzurro
e un coro di canzoni popolari intrecciate
con la trama del giorno, è come un film muto.
Niente specchi. Niente per mostrare
le tue scarpette sporche, la maglietta
sul tuo corpo affamato, la spirale
che ti è cresciuta dentro, il sogghigno
agli angoli della bocca.
“Non sono neppure quello che state cercando
di ricordare. Ridatemi indietro il rastrello,
la vanga, il mulo. Vi sentiamo ascoltare
ma sentite solo ciò che è vecchio. Vecchie maniere,
vecchia lingua, vecchia gente che romanticizza
troppo la guerra, da una parte o dall’altra.
Non ho mai conosciuto altro che guerra.
Non l’ho scelto io.”
Ritorno a ieri anche se domani
nasce Lenin. Non si va avanti.
Sono spinto indietro dagli spari.
Bombe seminate intorno Columbine. Corpi
che cadono, cadono, giovani corpi morti
non così a caso.
Kosovari che fuggono, studenti messi in fuga
attraverso la lezione di storia dell’anniversario
della nascita di Hitler.
Colpiti alla nuca
nel villaggio di Pec, a Columbine
o dall’alto
Una volta conoscevo una ragazza chiamata Columbine
sensibile come carta fatta a mano
sulla quale qualsiasi poesia vorrebbe essere composta.
Indietreggiare di due passi senza averne fatto
neanche uno in avanti, da leone o da formica.
Una volta conoscevo una città chiamata Pristina.