Leggo quella bellissima di Yolanda Pantin, Gli anni dell’infanzia (Pier Paolo Pasolini), e riscopro il nocciolo duro della poesia. Era un po’ che mi sfuggiva il senso di certe cose, in particolare di quelle non troppo praticate dal nostro tempo, delle cose profonde (vere e false che siano) del nostro animo, della vita, dei ricordi e delle nostalgie.
Per questo numero, dunque, le Fucine spostano l’attenzione. Dalle immagini del cinema, del teatro, della telematica, della televisione, del fumetto e della musica (che oggi essenzialmente è videoclip) passano ad altro. All’impalpabile, al vago, talvolta al nitidissimo, capace d’incidere significati nel gelo dei nostri cuori di panna.
Immagini dell’anima. Che ci spiegano Perché canta il coyote, di Carter Revard nato a Pawhuska, in Oklahoma. Del perché un Osage, che è stato a Wounded Knee ad occupare il villaggio dove il disonore americano si riversò bestialmente su trecento tra donne e uomini, vecchi e bambini, in un’esecuzione di massa, scriva poesia, e lotti per un popolo che non c’è più (se non nella sua profondissima umanità). Che ci dicono perché Il sangue limpido della sorellina di Sinan, strappata ai suoi pannolini, torni a tutti noi, fatto sempre più d’acqua ma non meno rosso.
Ci svelano degli Arcani di Pristina, quelli del giovane-vecchio Jack beat Hirschman, che canta l’hello nell’orrore e nell’indignazione della guerra, dell’America di Columbine (lo incontrai, ad una cena, e notammo subito il parallelismo tra Kosovo e Columbine che entrambi, inconsapevolmente l’uno dell’altro, avevamo fatto: lui nella poesia, io nel mio modesto editoriale di allora). Oppure, di Israel Eliraz, del ’36 come mio padre, studi a La Sorbona, drammaturgo, che ha scritto dieci opere in musica con Joseph Tal. Che parla di pietra, di terra, di vento ed erbe incerte, di corvi ed oriente.
Ci illuminano, queste poesie, su Cosa dice Tamara – che non parla ancora – succhiando la sua tettarella e contemplando questo vasto mondo che non è forse il più perfetto. Izet (che ha tenuto e scritto il famoso Diario di guerra di Sarajevo) è il testimone della tragedia bosniaca e dice: “se solo tutti i padri diventassero poeti”. Se fosse davvero così si parlerebbe. Di certo si morirebbe di meno. E poi le voci di donne, esse stesse poesia, troppo spesso disattesa nelle sue istanze di vita, in un mondo che non sembra ancora capace d’accogliere concretamente il parere di chi può materialmente donarla. Maria Luisa Spaziani (candidata al Premio Nobel per il 1990 e 1992). Ana Hatherly. Martha Canfield. Agneta Falk.
Fucine Mute deve questo numero agli accordi presi e alla fattiva collaborazione con Multimedia Edizioni e al Laboratorio di traduzione di Casa della poesia. Questi testi saranno letti in occasione degli incontri internazionali NAPOLIPOESIA ’99, nel magnifico Parco archeologico del Pausilypon, presso la Grotta di Seiano, a Coroglio, nei giorni dal 10 al 12 settembre. Ovviamente, libero sarà l’ingresso. Vuole essere, questo, il primo passo verso la realizzazione d’una nuova sezione del webmagazine dedicata al verso, a gettare quindi un ponte telematico tra Napoli, Recanati, Struga (Macedonia) e a qualunque altra manifestazione della poesia che volesse aderire al progetto.
Sarà questo anche il modo e il luogo per discutere di idee, di affetti, di linguaggi. Un ponte telematico che nessuno potrà abbattere a cannonate, dove al contrario ci si potrà incontrare, per confrontarsi o eventualmente ribellarsi.
I deserti crescono.
Guai a chi alberga deserti.
E’ mai possibile che l’essere venga distrutto nell’uomo?