Un “prologue” come avanspettacolo.
Siamo al cinema, in un giorno qualunque del 1933. Lo schermo parla e canta da più di cinque anni, in un tripudio di commedie musicali che il pubblico richiede a ripetizione.
La scena è quella di un “Saloon” del porto di Shanghai, una taverna piena di brutti ceffi, di marinai americani e di belle ragazze. Uno dei marinai gira fra i tavoli e rende noto a tutti, sulle note di un “song” che diverrà celebre, che sta cercando come un disperato una certa Shanghai Lil: “I’ve been looking high, l’ve been looking low, looking for my Shanghai Lil”, l’ha cercata in alto e in basso, proprio dappertutto. Ma la ricerca è vana, i brutti ceffi gli dicono che sarà difficile scovarla, e glielo ripetono anche le ragazze e gli altri marinai del locale. Ma alla fine la trova: è una graziosa cinesina, capelli neri, dolce sorriso e occhi a mandorla regolamentari. I due festeggiano la loro riunione con un lungo numero di vertiginosa “tap dance” per tutto il locale, tavoli e banco inclusi. Ma all’improvviso squilla una tromba militare che comanda la ritirata: il protagonista e i marinai devono tornare a bordo. E qui il coreografo, già ben noto per la sua straordinaria bravura nel muovere plotoni di ballerine, ci regala una sequenza spettacolare, con i marinai che si muovono come a una parata (il motivo musicale è sempre “Shanghai Lil”) e che realizzano figure di ogni genere, con riprese da ogni angolazione ma usando una sola cinepresa: l’aquila dello stemma USA, le stelle e strisce della bandiera, e , per concludere, con un movimento di tabelle viste dall’alto, il faccione rassicurante del nuovo Presidente Roosevelt, mentre il motivo diventa, ovviamente, “Stars and Stripes Forever”.
Ma non ci sarà, a conclusione, una povera Butterfly abbandonata sulle banchine del porto. La cinesina, travestita da marinaio, si è messa in fila anche lei, e sale sulla nave a fianco del suo amato. Felici e sorridenti. Fine del numero musicale. Questo numero di “Shanghai Lil” è un “Prologue”. Si chiamavano così delle brevi scene in palcoscenico, cantate e danzate, che nei maggiori cinematografi facevano da introduzione al film musicale mantenendo nel pubblico ancora un certo interesse per la tradizione teatrale in stile Broadway, di cui si temeva il declino.
Il marinaio del nostro “Prologue” é James Cagney, attore destinato ad una lunga carriera, una vera “star” nascente della casa Warner Bros. Veniva dal tirocinio di Broadway, e al cinema si era già fatto notare come gangster nel “Nemico Pubblico” del 1931, conciliando bene i due generi opposti di film. La candida cinese è Ruby Keeler, anche lei già legata alla casa Warner da precedenti pellicole musicali. Il regista è Lloyd Bacon, uno specialista del genere. Il titolo del film è “Footlight Parade” (Parata alla ribalta), sugli schermi italiani “Viva le donne!”.
Cosa possiamo dire di questa sequenza in musica e ballo, una delle tante degli anni Trenta? Kitsch in coreografia? Patriottismo spicciolo nei primi anni del New Deal di Roosevelt? Ottimismo yankee in anni di crisi da superare? Belle ragazze e danze spettacolari a sostegno? Magari anche tutto questo.
Ma la firma del coreografo ci consiglia forse un giudizio meno superficiale. La firma è quella, appunto, di Busby Berkeley.
Gli inizi. Coreografie in caserma e riviste a Broadway
Il volto di Busby Berkeley è facilmente riconoscibile, nelle fotografie dei libri sul Musical americano: un’espressione simpatica ma assorta, da uomo impegnato nel suo lavoro. Espressione che contrasta con il sorriso delle belle creature che lo circondano, le sue ragazze in tenuta succinta (anni ’30, beninteso), sempre sorridenti, irradianti ottimismo e benessere. “I’m young and healty, and so are you” era il titolo d’una loro canzone di scena (io sono giovane e sana, e lo sei anche tu…) . Ma essere una “Berkeley Girl” voleva anche dire lavoro duro, impegno e precisione. In qualche immagine si può vedere Berkeley mentre indica su una lavagna coperta di fitti segni la posizione delle ragazze in qualche scena importante.
Busby Berkeley (“Buzz” per gli amici, e ne aveva tanti) era nato a Los Angeles nel 1895 da una famiglia di attori di varietà. Il suo nome di battesimo era William; cambiato subito in Busby dal cognome d’una soubrette amica dei genitori. E il cognome Berkeley era quello della madre: quello paterno, Enos, non piaceva a nessuno. Aveva un fratello maggiore col nome tranquillo, George.
Busby era un autentico “Born in a Trunk”, nato in un baule, come si usava dire per i figli d’attori, gente vagabonda per professione. Studia in un collegio di tipo militare, ed è “graduated”, diplomato, a diciannove anni. Negli anni successivi lavora con impegno, da bravo impiegato, in una fabbrica di calzature. Nel 1917 l’entrata in guerra porta un cambiamento radicale nel corso della sua vita. Si arruola volontario e va in Francia alla scuola di artiglieria di Saumur, presso Bordeaux. E proprio sotto le armi si rivela il suo particolare talento: “Ero stanco della routine di caserma, e dissi al mio colonnello di provare a impegnarmi in qualcosa di diverso. Avevo pensato ad un sistema d’istruzione per le reclute basato sulla numerazione, che permettesse di marciare e fare evoluzioni senza ricevere ordini a voce”. Fu il suo primo successo di coreografo, e probabilmente il singolare punto di partenza di tutta la sua carriera.
L’armistizio del ’18 lo trova ancora in Europa, impegnato a organizzare spettacoli per le truppe. E questo è il suo primo vero tirocinio. Nel 1923 torna finalmente in America, a New York, e lavora nel campo del “musical” con varie occupazioni. Poi passa alle regie teatrali in alcuni spettacoli. In uno di questi ha tra gli attori un giovane inglese, tale Archie Leach, il futuro Cary Grant.
Nel 1922 “A Connecticut Yankee”, con le musiche di due autori già famosi, Rodgers e Hart, è il suo primo grande successo, con oltre quattrocento repliche in patria e in Inghilterra. Nel ’28 gli vengono commissionate le coreografie per ben cinque commedie musicali, e in una si trova a dover sostituire il protagonista, con un buon esito come attore.
In quel periodo le riviste di Broadway, anche perché si avvertiva già una forte concorrenza in arrivo da parte del cinema sonoro, allestivano spettacoli di classe, e basterà ricordare il nome-simbolo di Florence Ziegfeld. Ogni “show” aveva il suo corredo di splendide canzoni, mentre nelle orchestre cominciavano la loro carriera de solisti come Benny Goodman o Tommy Dorsey.
Durante questi anni iniziali della sua carriera, Busby è sempre molto vicino alla madre Gertrude, un’attrice di prosa dotata di un forte carattere, che l’aveva aiutata a superare due recenti tragedie famigliari: la morte del marito e del figlio George, qualche tempo dopo. Gertrude Berkeley dirigeva una sua compagnia di giro, e pur allontanati dai rispettivi impegni, madre e figlio mantenevano sempre la maggiore vicinanza possibile. Parleremo ancora di questa figura materna nella vita di “Buzz”, che, nel frattempo, si era sposato con una giovane attrice. Ma le vicende matrimoniali di Berkeley meriteranno qualche altra osservazione.
Era inevitabile che Hollywood puntasse gli occhi su questo regista e coreografo di Broadway. Era il 1930, e Busby non aveva ancora una sua precisa opinione sui film musicali, che gli sembravano piuttosto statici e di poco respiro. Tuttavia il richiamo era forte, e quando gli venne una proposta di lavoro dallo stesso Ziegfeld, anche lui ormai interessato al cinema insieme a Samuel Goldwin, accettò di buon grado.
Aveva trascorso nel teatro tutti i “Roary Twenties”, i ruggenti anni ’20, e aveva già firmato venti spettacoli a Broadway: erano due numeri venti che gli potevano anche bastare. E prese il treno per Los Angeles con la giovane moglie.
Cambio di dimensione: il cinema e i grandi produttori degli anni 30
“Wait a moment, you ain’t heard nothing yet!” La celebre frase “Un momento, voi finora non avete ancora sentito niente!” è sicuramente la formula più adatta a definire l’atmosfera di questo cinema diventato sonoro, parlato e cantato, dal 1927 in poi. La pronunciava Al Jolson dallo schermo, un ginocchio per terra e le braccia aperte verso il pubblico, con la sua faccia dipinta di nero e i labbroni bianchi dei “Minstrels”, i cantanti della preistoria musicale americana.
Ma non era ancora il Musical-spettacolo . Qui si parlava di madri abbandonate, come “My Mammy” nel “Cantante di Jazz” oppure di pargoletti morenti, come “Sonny Boy” nel “Cantante Pazzo”. Lacrime e canzoni da melodramma, sparse in ugual misura sul pubblico incantato dalla voce mielosa del grande Al, e dal “parlato” ancora un po’ incerto.
Il cinema, però, si stava rapidamente organizzando, e le Case di produzione, a Hollywood, puntavano tutte, a gara, su questo passaggio dalle ribalte di New York agli schermi della California molto accoglienti e redditizi.
All’avanguardia era la Warner Bros. e non soltanto perché era stata la Casa che aveva lanciato il sonoro. I quattro fratelli Warner, eccellenti imprenditori, sapevano benissimo che il “Musical” aveva un grande futuro, e lo affiancarono ad un altro “genere” in crescita, quello del “Noir” e dei gangsters. Più tardi, i Warner avrebbero consolidato la loro popolarità con le grandi biografie (Pasteur, Zola, Juarez e Massimiliano), poi con i film di Bogart e infiniti altri successi. Ma a noi interessa il loro rapporto con Berkeley, al quale, come vedremo, aprirono la strada alla grande, in piena concorrenza con le altre Case.
La Radio Pictures o RKO, era un’altra Casa in espansione. In contemporanea con i successi di Busby alla Warner, lanciarono, nel 1933, la coppia Ginger Rogers-Fred Astaire. I due avrebbero fatto insieme ben nove film con la RKO: non erano le sorprendenti coreografie di Berkeley con le loro esclusive canzoni di Warren e Dubin, ma le grandi melodie di Gershwin, Porter, Berlin e Kern ad accompagnare la loro leggerezza ed il loro magico affiatamento.
Il Musical della grande Metro-Goldwin-Mayer, diretta in quel tempo da Luis Nayer e da Irving Thalberg (il magnate ispiratore del romanzo “Gli ultimi fuochi” di Scott Fitzgerald) non può considerarsi una delicata eccezione come quelli della RKO, né una robusta digressione come quelli della Warner: la Metro, con la sua firma ricca e prestigiosa, si avviava ad utilizzare dei ritmi diversi di produzione. Più che i caleidoscopi della Warner di Berkeley o le armonie della coppia Astaire-Rogers, avrebbe giocato sulle persone (attori, cantanti, danzatori) sullo sfondo di scenografie ricche e patinate, accompagnate dalle liriche carezzevoli degli autori Nacio Herb Brown e Arthur Freed, con il tema delle solite vicende sentimentali, prima contrastate e poi a lieto fine. Un’altra specialità marca MGM sarebbe poi stata quella delle operette filmate (Maurice Chevalier, Jeannette Mac Donald).
Ma questo non era propriamente del vero Musical.
Il punto di forza di quegli anni saranno invece le tre edizioni di “Broadway Melody” 1936,1938, 1940). Ancora oggi ricordiamo almeno “You are my Lucky Star” con Bob Taylor e la vertiginosa danza della solista Eleonor Powell, accanto a una promettente ragazzetta di nome Judy Garland che sospira “Dear Mr. Gable” davanti alla foto del divo.
Merita ancora un cenno la Twentieth Century Fox, una Casa uscita faticosamente dal crollo di Wall Street, con il suo contributo al Musical: i suoi film avevano più volte in cartellone i nomi di Tyrone Power e Alice Faye, una quieta bellezza dalla morbida voce, che più tardi avrebbe lavorato anche alla Warner e per Berkeley. Ma la strada della Fox avrebbe incontrato il Musical solo per una breve tappa, più canora che spettacolare.
“The Show Goes On”, avanti con lo spettacolo. Busby Berkeley a Hollywood
La carriera di “Buzz” a Hollywood comincia dunque nel 1930, ma non subito alla Warner, la casa dei quattro famosi “Brothers” e del primo sonoro. Il primo passo lo fa varcando la soglia dei “Goldwin Studios”, la futura MGM. Samuel Goldwin è un ospite generoso, ma lo vuole subito al lavoro in un settore ancora nuovo per lui, creando i numeri di danza per il film “Whoopee!” (“Evviva”), una spigliata commedia “western” che aveva già avuto un ottimo battesimo a Broadway, interpretata da Eddie Cantor, un comico un po’ surreale e molto simpatico, proveniente dagli spettacoli di Ziegfeld.
Gli spunti coreografici sono graditi dal pubblico: vi compare per la prima volta un “Overhead Shot”, una ripresa “sopra le teste” delle danzatrici, che sarà una delle tante caratteristiche della tecnica di Berkeley.
Seguono altre due pellicole con Eddie Cantor, nel ’31 e ’32, e la seconda arriva anche in Italia col titolo “Il re dell’arena”.
Molti personaggi dello spettacolo hanno avuto, a un certo punto della loro carriera, un “anno magico”. Per Busby è il 1933.
È l’anno in cui la Warner, dopo alcuni tentativi con modeste commedie musicali, viene incaricata da Darryl Zanuck, abile produttore, di realizzare un “Musical” di prestigio: buoni attori, ricca messa in scena, numeri suggestivi, nessuna economia. La scelta per la direzione coreografica cade subito su Berkeley.
Nasce così “Quarantaduesima Strada”, il modello classico del Musical “backstage”, cioè “dietro al palcoscenico”, che sarà la base per tanti altri film successivi, con una trama basata sempre sull’allestimento di una grande rivista in mezzo a problemi, delusioni, contrattempi. E nel finale tutto dovrà regolarmente dissolversi nel migliore successo. Gli attori sono Warner Baxter, Bebe Daniels, la coppia Dick Powell-Ruby Keeler, oltre ad una giovanissima Ginger Rogers in procinto di diventare la partner fissa di Fred Astaire per la RKO. Gli autori delle canzoni sono sempre loro, Al Dubin e Harry Warren, che fanno anche un’apparizione di persona, e che saranno una garanzia musicale di lunghissima durata per molti altri prodotti di Berkeley.
“Quarantaduesima Strada” ha un esito clamoroso. E si pensa subito alla rivista successiva, che è “Gold Diggers of 1933”. Gli attori sono ancora in buona parte quelli del film precedente, con la aggiunta di Joan Blondell, un’attrice che resterà a lungo sotto contratto con la casa Warner. Il film contiene alcuni numeri musicali indimenticabili: “The Shadow Waltz” (Valzer delle ombre) con i celebri violini luminosi che “danzano” insieme alle loro suonatrici; oppure “We’re in the Money” (Siamo piene di soldi), con le ragazze vestite di monete, un’altra sfida alla Grande Depressione. Ma il “top” è nella lunga scena finale, “Remember my Forgotten Man”, “ricordi il mio uomo dimenticato”. È una sequenza rarissima nella storia del genere musicale, su un tema amaro e struggente: i soldati che tornano dalla guerra e che, dopo, diventano dei disoccupati in fila per il pane. Un tema ancora scottante nel 1933, una messa in scena colossale, con centocinquanta comparse in movimento. Qui Busby Berkeley non solo “rompe” con la tradizione. ma si guadagna un primato che durerà molto a lungo.
Il titolo di questo film, “Gold Diggers of 1933”, merita una spiegazione. Le Gold Diggers sono le “cercatrici d’oro”, vale a dire le belle ragazze alla ricerca d’una carriera dorata, possibilmente con l’appoggio di signori facoltosi dal portafoglio facile. Il titolo, un po’ amaro e un po’ ironico, verrà dato ad una lunga serie di Musicals e renderà famose molte di queste belle “Diggers” negli anni seguenti.
Il terzo film Berkeley-Warner dell’anno 1933 è “Footlight Parade”, e ne abbiamo parlato all’inizio. Questa “Parata alla ribalta” dedicata ai “Prologues” musicali tipo “Shanghai Lil”, contiene altri due numeri famosi. “Honeymoon Hotel” è una girandola di trovate in musica, tutte a celebrazione di questo “Hotel della Luna di Miele” della coppia Powell-Keeler, in un mondo di portieri e camerieri compiacenti, di sposini raggianti, di parenti impettiti, tutti regolarmente “singing and dancing”. Ma la terza sequenza è ancora una delle massime magie sceniche di Busby: “By a Waterfall”, (Accanto a una cascata). È un numero acquatico che ha ben poco in comune con le future nuotate di Esther Williams a colori, pur essendo anche quelle affidate a lui (e girate con tecniche molto più avanzate). Siamo di fronte ad una delle più sorprendenti fantasie musicali: un centinaio di ragazze in azione per oltre un quarto d’ora, prima sui gradini di una grande cascata d’acqua, poi in riprese subacquee, poi come elementi d’una fontana a piramide ruotante fra gli zampilli, e che altro ancora. Non sappiamo se ammirare di più il fascino di queste creature, o la raffinata eleganza di queste soluzioni, veramente incredibili all’inizio degli anni trenta.
Il titolo “Gold Diggers” comparirà ancora in un “1935”, “1937”, e infine in “Gold Diggers of Paris” del ’38. Ma nel 1934 è anche uscito “Dames” (che doveva essere il “Gold Diggers of 1934), nel quale, sulle note di “I have only Eyes for you” (ho solo occhi per te), si ha una lunga geometria di ballerine bianco-nere che, riprese dall’alto, ricompongono un sorridente ritratto-puzzle di Ruby Keeler, la protagonista.
Per il “1935” (“Donne di lusso” in Italia), Busby si incarica della regia dell’intera pellicola: un fatto abbastanza raro per tutto il suo periodo alla Warner perché, in genere, preferiva dedicare il suo impegno alle coreografie. Del resto, non vi furono mai dei contrasti con i registi che collaborarono con lui, e che gli furono sempre amici. In questo “1935” abbiamo nel cast Adolphe Menjou e Gloria Stuart (l’anziana superstite del Titanic d’oggi), il suo sempre valido Dick Powell, e soprattutto “The Lullaby of Broadway”, una canzone-inno alla grande via di New York, in un’altra memorabile sequenza di movimenti e sorprese. nella quale “si muovono” oltre cinquanta pianoforti bianchi, con le relative pianiste.
In questa seconda metà degli anni 30, fra una cercatrice d’oro e l’altra, troviamo ancora alcune altre produzioni di Berkeley veramente inarrestabile: “Roman Scandals” (il museo degli scandali), con Eddie Cantor di ritorno, e con il famoso numero delle schiave incatenate e coperte solo dai lunghissimi capelli. Poi c’è “Wonder Bar”, con un altro gradito rientro, quello di Al Jolson (non più nero) e il fascino esotico di una Dolores Del Rio in pieno successo USA. Poi “Fashions”, una commedia quasi seria sul mondo ambiguo della moda, con (sorpresa!) Bette Davis e William Powell e alcuni numeri musicali di lusso, come il finale con le ragazze-arpe. Per chiudere questa serie a perdifiato, ecco il “Gold Diggers 1937”, con una grande parata militare tutta al femminile, belle soldatine con tamburi e bandiere, e la canzone “All’s Fair in Love and War”, tutto è bello in amore e in guerra. Bianco-nero e tante musiche, come sempre.
La grande stagione di Berkeley con la Warner si sta concludendo: alcune cose minori, e infine “Hanno fatto di me un criminale” (They made me a Criminal), non musicale e fortemente drammatico, del 1939. Di questo film si parlerà molto, e ne parleremo anche noi.
Nuovo stile e nuove scoperte
Il congedo di Berkeley dalla Warner è semplicemente legato alla scadenza del suo contratto di sei anni (1933-1939). Ma non intende restare inattivo, e poiché gli perviene dalla Metro una buona offerta, si mette subito al lavoro: un piccolo film d’un genere poco “suo”, con la cantante Jeannette Mac Donald, e poi, nello stesso ’39, “Babes in Arms” (In Italia, Piccoli attori). È il primo film di una serie felice di tre: gli altri due saranno “Strike up the Band” (Musica indiavolata, 1940) e “Babes on Broadway!” (I ragazzi di Broadway, 1941). I protagonisti dei tre film sono molto giovani: Judy Garland e Mickey Rooney.
Busby è veramente ad una svolta. Sa che il tempo delle grandi magie siglate “WB” sta per terminare, e si inserisce, forte della sua esperienza, nello stile “Metro”, puntando sulla fresca attrattiva dei due protagonisti, verso un tipo di Musical più immediato e un po’ meno stupefacente. Ed è ancora il successo.
Lo sostengono anche le belle musiche di tre veri maestri: Richard Rogers, Harold Arlen e Nacio Herb Brown (il fedelissimo della Metro). Judy Garland ha diciassette anni e un premio Oscar appena ricevuto per la sua splendida Dorothy nel “Mago di Oz”, la ragazzina che voleva andare “sopra l’arcobaleno”. Mickey Rooney ne ha diciannove, e alle spalle si porta già una carriera iniziata da piccolo, e basterà ricordare il suo folletto Puck nel “Sogno di una notte di mezza estate”, un “hit” della Warner del l935. Le vicende dei tre film ruotano attorno allo stesso tema. Nel primo “Babes in Arms”, dei ragazzi pieni d’entusiasmo allestiscono coraggiosamente uno show per aiutare i genitori, che sono attori in decadenza. Nel secondo, “Strike Up the Band”, riescono a mettere insieme un complesso jazz che viene molto apprezzato dal famoso band-lieder Paul Whiteman, in persona nel film. E nel terzo i nostri eroi combattono per ottenere un’audizione a Broadway (da cui il titolo) sempre rinviata, da parte di un produttore renitente. Ovvio trionfo finale. Il film è del ’41.
La grande Metro ha ormai in mano, con Berkeley, la chiave per sicuri successi. Ed ecco, sempre nel ’41, “Ziegfeld Girl”, un film appassionato, sul tema delle ragazze in cerca di successo, con la loro umanità e bravura (e le “Gold Diggers” sembrano già lontane…).
Le “Ziegfeld Girls” sono Lana Turner, Hedy Lamarr e Judy Garland, il regista è Robert Z.Leonard. Si riaffacciano in questo film delle ricche coreografie, ma in stile Metro, ben assimilato da Busby: non acrobazie visive, ma piuttosto ricchi costumi su sfondi sontuosi e un grande supporto musicale.
Nel 1942 nessuna coreografia, ma una canzone che è anche il titolo del film: “For Me and My Gal’ (Per me e la mia ragazza), con Judy Garland e un Gene Kelly al suo primo film, in una ambientazione nel mondo degli spettacoli per i soldati in Europa.
Nel ’43 le liriche di Gershwin accompagnano “Girl Crazy”, diretto da Norman Taurog, per un ultimo incontro Garland-Rooney, e la splendida canzone “But not for Me” di cui si ricorderà Woody Allen per il suo “Manhattan” di tanti anni dopo. Ancora del ’43 è “The Gang’s all here” (in Italia un titolo particolare, Banana Split), nel quale si hanno numeri esotici con la brasiliana Carmen Miranda e la prestigiosa orchestra di Benny Goodman. La musica è di Harry Warren, per una volta ancora con Berkeley come ai tempi della Warner; e la carezzevole voce di Alice Faye, qui al suo penultimo film, ci canta “No Love, nothing”. Le belle coreografie ci portano ricordi ormai lontani e non più ripetibili dello “stile Warner”.
Stanno riaffiorando nel lavoro di Busby dei segni di stanchezza. Infatti il film successivo è del l949: quattro anni di quasi totale inattività per un regista che riusciva a creare, in un solo anno, delle serie di capolavori. Ne vedremo fra poco i motivi.
Nel l949 esce finalmente, per la casa Metro, “Take Me Out to the Ball Game”. Il film era molto atteso dal pubblico, che non ne viene deluso: Gene Kelly, Frank Sinatra (nel suo unico film con Berkeley) e Esther Williams, poco acquatica e molto spigliata. La vivace canzone del titolo vuol dire circa “Portami alla partita” e la trama si svolge tutta nell’ambiente “all American” del Baseball. E questo è l’ultimo film che ha la regia di Busby. Ne seguono pochi altri, nei quali si occupa esclusivamente dei numeri musicali. Fra questi si possono ricordare “Million Dollar Mermaid” (La ninfa degli antipodi) del 1952, e “Easy to love”, (fatta per amare) del ‘53, entrambi con Esther Williams”, ricchi di numeri acquatici. Non siamo più davanti alle sirene della cascata di “By a Waterfall” del 1933: grandi evoluzioni di sci acquatico, con bandiere sventolanti nelle acque della Florida e esibizioni della Grande Nuotatrice del Musical di questi anni ’50.
Nel 1954, una riedizione della vecchia operetta “Rose Marie” con qualche felice numero “canadese” con indiani e “giubbe rosse”, e poi ancora silenzio fino al 1962, anno in cui appare ancora il nome di Berkeley come direttore della seconda unità in “Jumbo”, un film sul circo, diretto da Charles Walters e musicato dai famosi Rodgers e Hart, protagonista Doris Day. Ed è veramente l’ultimo.
Un film diverso: la famosa eccezione
Al termine di questa rassegna,necessariamente sintetica, sul colossale impegno di Berkeley in trentadue anni di lavoro nel cinema, è opportuno ricordare un suo film del lontano 1939, che si inserisce fra i non molti da lui diretti al di fuori del mondo del Musical.
Scrivono i suoi biografi Thomas e Terry: “L’ultimo film di Busby Berkeley sotto contratto con la Warner Bros. non ha nulla in comune con quello che aveva fatto prima. “Hanno fatto di me un criminale”, drammatico, realistico, occasionalmente violento e straziante, dimostra che il suo talento di regista non era limitato ai “Musical” e alla commedia leggera.
È la vicenda di Johnnie, un giovane pugile sbandato, coinvolto in un delitto di cui non è responsabile, in fuga per l’America fino ad una sosta casuale in una piccola colonia agricola dell’Arizona, diretta da una anziana e amabile signora, nella quale lavora un gruppo di ragazzi ex-delinquenti in fase di rieducazione.
Il contatto con questo mondo sereno, e la vicinanza della figlia della direttrice, trasformano Johnnie. Se ne rende conto il poliziotto che lo cerca da tempo e che lo ha scoperto (è il bravo attore Claude Rains pre-Casablanca). Lo farà salire, incredulo e meravigliato, su un treno di passaggio, verso la salvezza, in una sequenza che ci ricorda, con le ovvie differenze, il “Pellegrino” di Chaplin del 1923, dove Charlot non si rende conto che il buon poliziotto vuole scaraventarlo oltre il confine col Messico per salvarlo, convinto della sua palese innocenza.Questo film “anomalo” di Berkeley non è certo una commedia, e vi si toccano spesso elementi di forte drammaticità, grazie anche alla sofferta interpretazione di John Garfield, giovane attore in ascesa e futuro interprete de “Il Postino suona sempre due volte” del 1946. Anche in questo film Berkeley introduce un numero acquatico, ma senza la serenità del “By a Waterfall” di lieta memoria.
È invece una sequenza tesa e disperata: i ragazzi, in una calda giornata estiva, si tuffano in una cisterna d’irrigazione. Ma lo scarico viene aperto casualmente dall’esterno, e i ragazzi rischiano seriamente di affogare nell’acqua che si è portata ad un livello non sufficiente per afferrare il bordo e uscire. Nessuno sente i loro disperati richiami, e solo Johnny li sentirà appena in tempo per aiutarli e salvarli, con rischio e fatica.
Malgrado un certo happy end, non siamo davanti ad un film ottimista. Infatti, se è vero che Johnny lascerà la fattoria verso una libertà che non sappiamo se sarà definitiva, la conclusione ci comunica un’immagine di “sopravvivenza”, più che di salvezza, come dice giustamente Del Ministro, parafrasando il titolo del suo saggio. E l’acqua, coreografica e zampillante di “Footlight Parade”, è in questa sequenza la nemica-assassina per queste giovani esistenze, giovani come le belle sirene di “Presso la cascata”. Un elemento di morte che si introduce in una scena felice: ne troveremo altri nella filmografia di Berkeley.
Il “privato”, senza indiscrezioni
La figura della madre Gertrude è certamente la più incisiva su tutta la vita di Berkeley. Una donna dotata di una forte personalità e di un grande senso d’indipendenza, rimasta sola con questo unico figlio dopo la perdita del marito e quella, tragica, del figlio maggiore, tossicodipendente. Una donna sempre presente in tutte le circostanze, felici o avverse, pur senza interferenze nella vita professionale di Busby, e pur essendo lei stessa una creatura dello “show business”. Avrà certo assistito, soffrendone, al via-vai femminile nelle vicende del figlio, ben cinque divorzi su sei matrimoni (ma l’ultimo fu veramente felice e risolutivo). I motivi di questa instabilità coniugale, più che in un facile “dongiovannismo” che non crediamo probabile, risiedevano quasi sempre nel suo tenace attaccamento al lavoro, come lui stesso ebbe a dichiarare in qualche intervista: più che “tradire”‘, “trascurava”, secondo la terminologia cara ai legali di quel tempo.
Un altro elemento da sottolineare nella vita di “Buzz” è, come abbiamo detto prima, un senso di miseria o dl morte talvolta incombente nelle sue pellicole, anche le più famose e spettacolari. Abbiamo visto la tragica sequenza della cisterna in “Hanno fatto dl me…” Ma che dire del numero musicale di “Quarantaduesima strada”, dove una ragazza, per sfuggire al suo persecutore, si lancia dalla finestra tra le braccia di un ballerino e viene raggiunta dal bruto che la pugnala alle spalle.
E nell’elegantissimo “Wonder bar” del 1934 un altro o coltello, impugnato da una Dolores Del Rio disperata per gelosia, trafigge, in una voluttuosa scena di tango, il vanesio Ricardo Cortez. E ancora, in “Gold Diggers 1933”, la stanca sfilata di militari davanti ad una folla di affamati travolti dalla guerra e dalla disoccupazione, accompagnata non da una vivace marcia d’ordinanza, ma dallo straziante “My forgotten Man” di Joan Blondell.
Ci si chiede: “Ma è spettacolo, è Musical, questo?” Solo Busby è riuscito a cucire insieme delle cose in antitesi e ad inserirle nelle sue sequenze senza creare rotture: guerra, disoccupazione, delitto.. Il suo carattere talvolta incline alla depressione cedeva sempre il posto alla primaria armonia delle musiche e delle coreografie.
Sul “privato” di Berkeley vanno ancora ricordati alcuni episodi drammatici. Il primo è del 1935: già in fase di esaurimento nervoso per il sovraccarico di lavoro, fu coinvolto in un grave incidente automobilistico sull’autostrada del Pacifico, la famosa Pacific Highway, uno scontro frontale con due morti nell’altro veicolo. La causa giudiziaria si prolungò per oltre un anno, e terminò con una assoluzione, ma lui ne fu sconvolto per molto tempo.
Nel 1946 gli muore la madre, dopo una lunga e dispendiosa lotta contro il cancro. Busby si rifugia nell’alcool e in un tentato suicidio con tagli poco profondi ai polsi. Viene ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Los Angeles, un autentico incubo durato sei settimane.
È il peggior periodo della sua vita. Un tentativo di ripresa con la Warner Bros. non ha esito, ma la risurrezione arriva con la Metro Goldwin Mayer, dove si dedica da coreografo e regista a “‘Facciamo il tifo insieme” (Take Me Out to the Ball Game), di cui si e già parlato prima. Busby ha superato i quattro anni di inattività e lavora ancora bene, accompagnato da manifestazioni di stima e dal ritorno di una serenità salutare, anche per merito del suo sesto matrimonio, con Etta Judd, una vedova sua amica da tempo.
E la sua vecchiaia trascorre tranquilla. È spesso invitato a convegni in suo onore, e tutti i suoi film migliori vengono rivisti e applauditi. Muore nel 1976, a ottantun anni, nella sua casa di Palm Desert in California dove aveva girato le sequenze in esterni del suo film “anomalo” e benamato, “They made me a Criminal”.
Il suo stile
Nel periodo conclusivo della sua esistenza, Busby Berkeley avrà capito sicuramente che non solo la sua carriera, ma il Musical stesso, erano alla fine. O per lo meno il Musical secondo il suo stile unico nella storiadel cinema. Vale la pena di sottolinearne qualche peculiarità. La macchina da presa, prima di lui, “fotografava” i numeri di canto e danza con l’ottica dello spettatore seduto in platea. Con lui, la macchina da presa è dentro la scena, è parte dello spettacolo. Non osserva, ma “vive” a fianco delle “chorines”, le ragazze del coro che fanno lo show: “It Is the camera that is doing to dancing, not the chorines!”
Il periodo magico dei suoi film, con le tre pellicole basilari del 1933, segue di pari passo l’ascesa di F.D.Roosevelt e del suo “New Deal”, il nuovo progetto per uscire dal dramma sociale della Grande Depressione, quella del “Furore” di Steinbeck, dei reduci umiliati, delle speranze crollate. Berkeley cerca di interpretare il sogno di questi americani, più che il “Sogno Americano”, l'”American Dream” dell’utopia.
Dice Claver Salizzato nel suo acuto studio sul Musical: “Se Berkeley fosse venuto molto prima o molto dopo questo periodo, la sua opera sarebbe stata meno credibile, più sfacciatamente kitsch, volgare e inopportuna… La grandezza dell‘entertainer sta più nella sua sapiente scelta di tempo che nelle eccezionali innovazioni che seppe introdurre nel proprio lavoro di coreografo”.
Ecco dunque i fondamenti del suo stile: Berkeley non voleva stupire, voleva comunicare al suo pubblico una visione ottimistica del suo tempo attraverso un linguaggio esclusivo e raffinato.
E si noti che era arrivato a Hollywood nel 1930 senza sapere niente di cinema, e che non avrebbe mai imparato a ballare un solo passo di danza. “È a Berkeley che dobbiamo l’utilizzo su vasta scala del carrello su monorotaia e della gru, che è quasi un suo privilegio, e dello spostamento attraverso il set della cinepresa. I suoi numeri si sviluppano come una ininterrotta “soggettiva”… perché è lui (siamo noi) che carrella fra le girls o che si innalza fino a raggiungere altezze di circa venti metri…”. Pensiamo ai travelling sott’acqua fra le gambe divaricate delle ragazze, o agli incredibili cartelli nascosti che vengono palesati al momento giusto per far apparire una Manhattan fitta di grattacieli o i ritratti monstre di Roosevelt e di Ruby Keeler.
Un altro studioso di Berkeley, il francese Alain Masson, mette in evidenza le coordinate geometriche delle sue coreografie: il rettangolo, il triangolo, il cerchio. E anche, a suo parere, il richiamo erotico di certe immagini femminili tanto più attraenti quanto velate dai dettami puritani dell’epoca, con la maliziosa intrusione d’un nanerottolo-folletto che si fa palese nelle più allusive sequenze musicali, come “Pettin’ in the park”, “Honeymoon Hotel” e qualche altra. E come non ricordare il taglio “militare” di certe parate delle girls o dei ragazzi di Broadway lanciati verso il successo, e ancora i tanti “oggetti” come parte integrante delle coreografie in movimento (i pianoforti, le sedie a dondolo, i violini luminosi, e persino le banane giganti di “The Gang’s all here”). Su questo stile di Busby molto è già stato detto, e molto si può forse ancora dire. Se vi fu kitsch, ebbene, viva il suo kitsch.
A conclusione, le parole dei suoi due fedeli biografi:
“La sua storia è stupefacente per varie ragioni. È la storia di un eccezionale coreografo che non aveva mai studiato la coreografia, di un “Dance director” che non aveva mai preso una lezione di ballo, e di un regista cinematografico che non aveva mai pensato alla regia prima del suo primo giorno in uno studio. Il suo istinto, il suo senso degli effetti visivi, si associano nel fare del suo contributo uno dei più particolari in tutta la storia del cinema.”
Un’appendice con due film d’altri
Ci sono due film: “Il Boy-Friend” di Ken Russell,del 1971, e “Movie Movie” (Il boxeur e la ballerina) di Stanley Donen, del 1978, che hanno una loro relazione con l’opera di Busby Berkeley.Il primo, del regista inglese, è il più diretto, un omaggio al Musical di Hollywood attraverso Broadway, ambientato nell’atmosfera “dietro le quinte” degli anni 30, con la classica vicenda della diva (Glenda Jackson) che si rompe una gamba e viene sostituita in extremis da un’impacciata guardarobiera (la diafana Twiggy), votata al prevedibile successo. Lo stile delle coreografie ripete fedelmente quello di Berkeley, anche se il colore ci dà la sensazione di quanto esse siano lontane nel tempo.
“Il boxeur e la ballerina” di Donen è una simpatica parodia divisa in due parti. La prima,” Dynamite Hands”, è sul genere pugilistico alla John Garfield, con la carriera (contrastata dalla malavita) del giovane e promettente pugile. La seconda parte si chiama “Baxter Beauties of 1933”, e il titolo ci porta subito a Berkeley e al protagonista di “Quarantaduesima Strada”, l’attore Warner Baxter. La vicenda è quella del classico “The Show Must Go On” di fronte ai capricci della solita diva, sostituita da una candida principiante che si rivelerà bravissima. E ricorre, puntuale, la storica frase dell’impresario severo ma paterno, rivolto verso l’attricetta che sta avviandosi verso il palcoscenico, proprio la stessa frase di “Quarantaduesima strada”: tu stai uscendo come principiante, ma stai per rientrare come stella! “You’re going out a youngster, but you’ve got to come back a star!”.
E in questa frase, affettuosamente retorica, è compresa tutta la passione, la speranza, l’ottimismo del mondo dello spettacolo: il mondo che fu la vita del grande “Buzz”.