Lorenzo Acquaviva (LA): Qual è la tua formazione teatrale?
Giovanni Boni (GB): La mia formazione teatrale inizia mentre facevo l’analista chimico in fabbrica, per una ragione di buona dizione, perché in questo posto di lavoro non sapevo parlare che il bergamasco tradotto in italiano. Allora sono andato ad un corso di teatro a Bergamo dove ho incontrato Armida Gavazzeni, che aveva un gruppo con il quale andava per circa tre mesi all’anno in tournée, soprattutto in Francia, Belgio e Lussemburgo…
LA: La figlia del celebre direttore d’orchestra?
GB: Era la nipote. E lei, al primo anno di questo corso di dizione e teatro — che comunque avevo già fatto all’oratorio — da subito ha capito che, avendo io svolto molti altri mestieri, potevo essere se non un attore eccellente almeno un buon tecnico per la sua compagnia. E così mi ha chiesto subito, alla fine dell’anno, di entrare nella sua compagnia. Ciò comportava il continuare a lavorare, di provare la sera per tutto l’anno e poi di andare in tournée in questi tre mesi. Questa signora faceva un teatro di avanguardia già allora, eravamo nel ’69-’70, presentando degli spettacoli compositi che avevano un titolo rispetto al quale veniva scelto il materiale drammaturgico. Il primo che ho fatto, ad esempio, era “Etre non Paretre” (essere non sembrare) con testi di Gogol, Tagore, Pirandello. Degli spettacoli a tema, potremmo dire, con molta “espressione corporale”, come dicevano in Francia, ma recitato in italiano con l’aggiunta di uno o due attori francesi che costituivano i raccordi dello spettacolo e lo rendevano comprensibile. Ho partecipato molto volentieri a questa prima esperienza teatrale perché comunque rappresentava per me, a vent’anni, una grossa avventura. Durante il primo anno ho continuato a fare il mio lavoro in fabbrica chiedendo un permesso per tre mesi, che poi mi hanno dato. Nel secondo anno mi sono dovuto licenziare per dedicarmi interamente alla compagnia il cui lavoro aveva avuto un riscontro critico straordinario, soprattutto in Francia.
Per me allora era impensabile l’idea di fare l’attore di mestiere, sia per mia formazione personale, sia perché non esisteva nel paesino in cui abitavo la possibilità di farlo. Non si sapeva chi erano gli attori anche perché la televisione non ce l’avevamo o quasi. Questa era considerata una cosa folle e ciò ha causato dei problemi con mio padre.
LA: Certo avevi un lavoro sicuro, uno stipendio…
GB: Sì, certo, lui aveva fatto tanto per farmi assumere. Comunque, tornando al nostro discorso, posso dire che con la compagnia della Gavazzeni si andava spesso nelle case della cultura in Francia, in molti festival, tra cui quelli di Bordeaux e Grenoble, senza trascurare però paesini di minatori, istituti italiani di cultura all’estero, ecc. La compagnia, comunque, non ci pagava, limitandosi a fornire soltanto vitto e alloggio.
LA: Dunque tu inizialmente non ricevevi un vero e proprio stipendio?
GB: No assolutamente. Oltre al vitto e alloggio ricevevamo giornalmente qualcosa, l’equivalente di 10.000 lire d’oggi. Poi alla fine del secondo anno ho ripreso a lavorare facendo i mestieri che sapevo fare, come lo stuccatore, cosa che è durata fino ai primi tempi della scuola del Piccolo Teatro anche perché, saputo che la compagnia Gavazzeni riceveva dei soldi, tre di noi, tra cui io, si sono arrabbiati e se ne sono andati. Proprio in quel periodo i miei compagni si apprestavano a fare l’esame di ammissione alla scuola del Piccolo e cosi, visto che lavoravamo tutti assieme, mi hanno chiesto di fare loro da spalla nell’audizione; io ci sono andato solamente per far loro un piacere perché ancora non ritenevo pensabile un futuro d’attore. All’esame la nostra bravura fu subito evidente tanto che il vice-direttore del Piccolo ci disse che noi non ne avevamo bisogno. Noi invece eravamo convinti del contrario e così ci iscrivemmo.
Solo a quel punto mi sono convinto che valeva la pena tentare e così ho frequentato questa scuola di teatro continuando comunque a fare lavori saltuari, tra cui il fattorino in una casa editrice. Da allora sono rimasto sempre a Milano. Finita la scuola del Piccolo sono stato piuttosto fortunato…
LA: A proposito del Piccolo, Strehler veniva ad insegnare attivamente?
GB: No, no. La Scuola era tenuta per la maggior parte dagli attori della compagnia del Piccolo di allora, come Gianfranco Mauri, Ottavio Fanfani, Checco Rissone e Ivana Monti, che aveva appena finito la scuola ed insegnava recitazione al primo anno. Poi c’erano gli insegnamenti di mimo e di scherma, comunque anche questi legati alla compagnia del Piccolo. Strehler si è fatto vedere due o tre volte; veniva per degli incontri o per vedere qualche saggio. Ma lui, sai, aveva la sua arte da fare perché quello era il periodo in cui stava facendo gli spettacoli più belli. Mi ricordo bene il “Re Lear”, “L’istruttoria” ed alcuni spettacoli impegnati. Paolo Grassi, che era l’organizzatore del Piccolo, venne qualche volta. C’erano poi anche alcuni insegnanti che erano dei teorici della televisione che venivano a fare lezione di teoria e storia dello spettacolo.
LA: Chi avevi come compagni di corso?
GB: Mah, di diventati famosi quasi nessuno, perché comunque quella era una generazione che voleva andare nella compagnie alternative e che poi ci è anche rimasta. Non saprei dire chi fossero i più famosi. Forse Raffaella Azim, Ida Marinelli.
LA: Ida Marinelli è una delle attrici più importanti del Teatro dell’Elfo.
GB: Esatto, che nasceva proprio in quegli anni intorno al ’73.
LA: In parte l’hai già detto tu, però spiegami meglio cosa significasse il teatro per te, e soprattutto, cosa volesse dire fare teatro in quegli anni.
GB: Cosa volesse dire fare teatro ancora io non lo sapevo perché venivo da un’esperienza fortunata ma anche improvvisa e veloce. Mi sono sentito subito molto motivato nel recuperare quello che non avevo fatto, come la teoria sul teatro. I tempi che si vivevano a Milano dopo il ’68, quando ci arrivai, erano di alternativa al sistema e questo, per forza di cose, impregnava le nostre volontà. Questo stato di cose ci induceva a ricercare e, dal punto di vista teatrale, il Gruppo della Rocca, la cui fondazione è preesistente alla mia entrata, rappresentava un esempio pratico molto eloquente di questa ricerca. Dopo la scuola ho passato un periodo al Teatro Uomo di Milano con il quale ho preso parte ad una versione del “Giulio Cesare” di Giuseppe di Leva, in una piccola parte tra l’altro. In seguito, dopo avermi visto in un saggio al Piccolo, venni chiamato a lavorare con il Gruppo della Rocca che aveva bisogno di allargare l’organico dovendo formare due compagnie, visto l’enorme quantità di spettacoli che produceva. In precedenza avevo preso parte con il conservatorio di Milano, all'”Histoire du soldat” in cui facevo la parte del diavolo; come vedi sono stato molto fortunato: non ho avuto problemi di lavoro. E proprio Fiorenzo Grassi, organizzatore del Teatro Uomo, sentito che mi volevano alla Rocca mi spronò ad accettare.
LA: Comincia così la tua avventura con il teatro della Rocca, che è durata vent’anni…
GB: Fino al 1991, diciassette anni, facendo dieci mesi all’anno di distribuzione, soprattutto fino alla metà degli anni ottanta. Riuscimmo ad avere un discreto sovvenzionamento statale essendo una delle compagnie che faceva più produzioni.
LA: Andiamo adesso un po’ a capire quando, come e con che finalità nasce il Gruppo della Rocca?
GB: Il Gruppo della Rocca nasce come collettivo sociale nel 1969, come cooperativa nel ’70 dall’incontro di attori, tecnici, operatori teatrali di diverse provenienze quali l’Accademia di Roma, il Cut di Firenze, il Piccolo di Milano. Altri ancora da Firenze stessa, come Guicciardini, uno dei fondatori, tutti comunque con l’intento di fare qualcosa per rinverdire, ritrovare e rinnovare il fare teatro. Uscire quindi dagli schemi del teatro ufficiale e convenzionale ma non facendo sperimentazione bensì ricerca, perché esiste una differenza fondamentale tra questi due approcci artistici e già allora esistevano le cantine romane dove si sperimentava. Il Gruppo della Rocca era sicuramente figlio del suo tempo e a dimostrazione di ciò ha redatto una specie di statuto o manifesto, all’atto della fondazione della cooperativa, in cui dichiarava i suoi intenti che si indirizzavano nella direzione di allargare la possibilità di fruizione del teatro. In altre parole consentire l’accesso al teatro a coloro che non ci potevano andare per questione di costi, per un fatto di abitudine o per semplice disinformazione, e portare così a questi spettatori un teatro di contenuti, senz’altro politici, ma soprattutto di impegno teatrale. Non era necessario insomma che lo spettacolo avesse un contenuto politico ma un contenuto sociale sicuramente sì.
LA: Quindi la novità del Gruppo della Rocca si traduceva sia nella scelta dei testi, sia nella scelta distributiva, sia infine nelle vostre regole interne perché, tu mi dicevi, dall’elettricista al primo attore avevate tutti la stessa paga.
GB: Questa era un’altra delle formule dello statuto da cui non ci si poteva discostare assolutamente: tutti i componenti della cooperativa dovevano partecipare in modo paritario in quanto a diritti e doveri, alla partecipazione delle scelte culturali, organizzative, tecniche e quant’altro riguardasse il gruppo stesso.
LA: Quindi, un vero e proprio collettivo.
GB: Esatto un collettivo teatrale, come appunto era precisato nello statuto, denominazione che poi è stata tolta a metà degli anni ottanta per la sua collocazione troppo ideologica. Tutti avevamo la stessa paga, dal tecnico al regista all’organizzatore. Una paga sufficiente per vivere ma sicuramente lontana da quelle dei teatri ufficiali. Tutto ciò non solo per convinzione politica, di egualitarismo comunista — per quanto la stragrande maggioranza di noi fosse collocata in quell’area o comunque in quella extraparlamentare e anarchica — ma anche perché questa regola avrebbe aiutato, o quanto meno ne esisteva la convinzione, la creazione artistica. Infatti questo stato di cose avrebbe consentito la partecipazione collettiva alla messa in scena e avrebbe tolto di mezzo le lotte fratricide di potere con una ricaduta favorevole sulla produzione degli spettacoli, cosa che poi si è puntualmente verificata ed è stata riconosciuta in assoluto, per prima, al Gruppo stesso. La vera novità del gruppo era la collettività della messa in scena che veniva discussa da tutti noi, dal primo all’ultimo. Qualsiasi progetto proposto da un gruppo di noi doveva essere motivato nelle intenzioni e negli obiettivi, dopo di che se ne discuteva l’opportunità di realizzarlo o meno attraverso una votazione collettiva.
LA: Quindi il collettivo si riuniva, discuteva dopo di che votava…?
GB: Esatto. E questa discussione poteva durare anche un anno, prima di approdare alla messa in scena. Questo confronto era fatto in rapporto all’artistico ma anche al pubblico che noi ci aspettavamo venisse vederci.
LA: Questo per quanto riguarda l’organizzazione. E per quanto riguarda la struttura? La vostra ricerca sull’artistico, come veniva condotta? Quali erano i vostri riferimenti?
GB: Volendo portare il teatro a un pubblico non necessariamente colto, ad un pubblico popolare, volendo quindi allargare il bacino di utenza, si è reso necessario realizzare il comitato di decentramento. Siamo stati i primi a crearlo in Toscana; potendosi permettere anche di non andare alla Pergola di Firenze, il Gruppo della Rocca ha potuto esistere all’inizio anche prescindendo dall’iter dei teatri istituzionali. Comunque dovendo portare il teatro ad un pubblico popolare, ad un certo punto si è posto il problema dei linguaggi da usare per comunicare contenuti, contenuti di critica sociale ad un pubblico che veniva per la prima volta in teatro o quasi. Quali fossero gli strumenti più adatti per realizzare i nostri intenti noi li abbiamo rinvenuti nella clownerie, nelle maschere, nell’avanspettacolo, nella biomeccanica, attraverso la lezione delle avanguardie, soprattutto quelle russe dei primi del novecento, come Mejerchol’d, Majakovskij ma anche Ripellino e Brecht naturalmente, non tanto come metodo ma come teoria sul teatro…
LA: E la commedia dell’arte…
GB: Certo, senza dubbio ci siamo serviti anche di questa forma artistica negli spettacoli, o prima della messa in scena, con seminari su questi modi di espressione e sulle maschere, chiamando anche degli specialistici come per esempio la prestigiosa compagnia della Mnouskine del Théatre du Soleil…
LA: Che nasceva più o meno contemporaneamente a voi anche se magari si differenziava perché aveva un leader riconosciuto…
GB: Sì, la loro era addirittura una specie di comune, noi del Gruppo invece no anche se lo diventavamo di fatto stando dieci mesi in giro in tournée. Una comune noi non l’abbiamo mai teorizzata, così fortunatamente tutti noi potevamo avere una vita privata, per quello che era possibile stando insieme per anni. Come dicevi abbiamo collaborato con alcuni attori del Théatre du Soleil, soprattutto Gonzales…
LA: Mario Gonzales?
GB: Esatto, Mario Gonzales, che venne a tenere da noi un laboratorio incentrato sulle maschere che loro stavano utilizzando in occasione dello spettacolo “L’age d’or”. Talvolta mandavamo qualcuno di noi, come ad esempio Marcello Bartoli con Le Coq, a Parigi, a frequentare dei seminari di due o tre mesi per poi al proprio ritorno trasmettere tutto quello che era stato appresso.
LA: Praticamente una specie di autofinanziamento artistico interno!
GB: A volte, se ci pensi, trovi le soluzioni per determinate necessità. Devi avere però uno spazio proprio.
LA: A proposito di spazio dove nasce esattamente il Gruppo?
GB: Dunque il Gruppo della Rocca nasce in Toscana, a Firenze più o meno. Anzi la Cooperativa del Gruppo della Rocca si chiama così proprio perché è nata a San Gimignano, in una rocca di proprietà di Roberto Guicciardini, conte, e poi confiscata. Sulla parola gruppo non si poteva transigere ed infatti il nostro simbolo, che non so nemmeno se esista più, era un insieme di palle, quadratini, triangolini racchiusi in una sfera.
LA: Un po’ surrealista come simbolo?
GB: No, era idealista nel senso che era una cosa sola formata da tanti elementi singoli diversi tra loro.
LA: Individualismo mantenuto in una collettività, quindi. Ma ci stavi parlando dei vostri riferimenti che andavano dalla tradizione italiana dell’avanspettacolo alla commedia dell’arte, alle avanguardie russe e tutto ciò per poter trasmettere con degli strumenti popolari un contenuto politico.
GB: Sì. Questi erano, diciamo, i riferimenti stilistici non drammaturgici che invece avevano poco o niente a che vedere con l’avanspettacolo o i dadaisti, dai quali in pratica ricavavamo i nostri strumenti espressivi. Quindi si andava alla ricerca su come fare per esempio una riduzione del “Candido” di Voltaire, utilizzando di tutto: dal travestimento alle maschere, dal funambolismo al teatro gestuale….
LA: In che senso funambolismo?
GB: C’era anche dell’acrobazia. Veri e propri salti mortali.
LA: Quindi grandissimo lavoro fisico.
GB: Grande lavoro fisico naturalmente perché dovevamo supportare con questa immediatezza di comunicazione scelte qualche volta….
LA: Impegnative?
GB: Impegnative a livello di contenuto.
LA: Quali sono stati gli autori che più rappresentavate?
GB: Sono stati tantissimi. Almeno inizialmente eravamo orientati su due filoni: uno che derivava dalla riduzione di romanzi o cose del genere, come appunto il “Candido” di Voltaire o “Perelà uomo di fumo” di Palazzeschi; oppure Germanetto.
LA: Perché Voltaire?
GB: Perché Voltaire ci consentiva di raccontare una favola educativa o diseducativa con tanta teatralità. Poi vi era il filone del teatro veramente impegnato come “Il Tumulto dei Ciompi” di Dursi e “Barba di rame” di Germanetto.
LA: Germanetto è un autore contemporaneo?
GB: Sì, lui ha scritto questo romanzo quasi all’inizio dell’era fascista, ed era anche uno dei fondatori del PCI. Il romanzo racconta di un barbiere di provincia che matura a poco a poco una coscienza antifascista.
LA: E di Brecht che cosa hai fatto?
GB: Abbiamo fatto “Schweich nella seconda guerra mondiale” e “Le Farse”.
LA: “Le farse” è un’opera di Brecht?
GB: Sì. Le farse erano composte da “La domanda di matrimonio” e “Le nozze piccolo borghesi”. Comunque un’altra delle riduzioni importanti che il Gruppo ha fatto è stata “Ballata e morte di Pulcinella capitano del popolo” di Luigi Compagnone. Quest’ultimo spettacolo è una favola che è allo stesso tempo una metafora politica, perché il Pulcinella di Compagnone tradiva il popolo e si toglieva la vita; tradiva il popolo per amore della bella addormentata, falsamente promessa dai regnanti, che erano i dominatori.
LA: Quindi era un modo per dire alle gente di stare sempre in guardia…
GB: Sì, dire alla gente di stare in guardia e rivelarle le doppiezze e le ambiguità. Poi un altro filone è stato quello russo. Abbiamo fatto due spettacoli storici di cui uno si potrebbe indicare come l’esempio più eloquente dello stile del Gruppo della Rocca: “Il mandato” di Erdmann. Pensa che ha fatto tre stagioni con almeno 500 repliche; poi dello stesso autore lo spettacolo “Suicida”; quindi abbiamo realizzato “L’azzurro non si misura con la mente” di Aleksandr Blok. Insomma ce ne sono tantissimi.
Abbiamo rappresentato anche Horvath; e proprio con un lavoro di questo autore sono stato per la prima volta a Trieste nel ’74/’75 all’Auditorium dove alcuni spettatori, un po’ di parte, ci aspettavano fuori per menarci. Poi ci sono tornato con altri spettacoli, anche allo Stabile.
LA: Comunque, tornando ancora alla struttura del Gruppo stesso, tu facevi riferimento ad una scelta distributiva anche nei posti più disagevoli.
GB: Ecco! Un’altra caratteristica del Gruppo era di avere tra i propri soci anche gli organizzatori, i tecnici, gli elettricisti, gli scenografi. Lorenzo Ghiglia, ad esempio, è stato colui che ha realizzato delle scenografie splendide.
LA: Che dovevano essere realizzate in modo da essere funzionali nei diversi spazi teatrali che voi sceglievate.
GB: Tutte le scelte erano in un certo qual modo ideologiche. Noi infatti facevamo uno studio della scenografia che tenesse conto, con pari dignità, di tutti i posti che dovevano visitare: dalla piazza al grande teatro. A volte venivano costruite addirittura due versioni della stessa scenografia perché questa dignità venisse mantenuta il più possibile. Ad esempio se noi andavamo in una casa del popolo, come succedeva spesso, e la scenografia non ci stava, questo ci imponeva di elaborare una scenografia più piccola che contenesse sempre gli stessi elementi. Non volevamo discriminare nessuno, tanto meno quel pubblico cui erano destinati naturalmente le nostre produzioni. In altre parole ci eravamo tassativamente imposti di portare dappertutto lo stesso prodotto, la stessa qualità.
LA: Come procedevate nella messa in scena dello spettacolo? Uno spettacolo del Gruppo della Rocca andava in scena anche dopo anni di studio, cosa che sarebbe impensabile ora e forse per certi versi anche all’epoca.
GB: Esattamente. Alcuni erano covati per parecchio tempo a livello teorico, altri invece erano frutto di sperimentazioni, letture e mise in espace durante l’anno. Sempre comunque avevamo a disposizione 60 giorni di prova almeno per metterlo in scena, perché naturalmente l’apporto collettivo abbisognava di tempo. Tutto questo almeno fino alla fine degli anni settanta. Questo apporto collettivo, devo però sottolineare, era possibile in modo concreto e reale solo perché la proposta era nata e si era sviluppata all’interno del Gruppo. Cioé: la conoscenza e le motivazioni di una proposta di messa in scena, con le discussioni che ne seguivano, ci facevano arrivare alle prove dello spettacolo con delle idee ben precise da sottoporre al regista, che diventava il filtro artistico. Tutte le proposte od obiezioni riflettevano, a quel punto, problematiche artistiche, soprattutto quelle non ancora ben sviscerate.
Tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile in soli 60 giorni di lavoro. Proprio per questo gli spettacoli avevamo una propria specificità: erano il prodotto di un collettivo, non solamente una questione di bravura. Secondo me il Gruppo della Rocca è durato con queste caratteristiche circa dieci anni, dopo di che sono cominciate le prime defezioni per disaccordi ideologici e fisiologici che in realtà coprivano altri motivi, come la necessità di misurarsi, da parte di qualcuno, a livello individuale o la volontà di confrontarsi con il teatro più tradizionale per verificare il proprio valore artistico anche al di fuori del Gruppo, o ancora la stanchezza di lavorare in queste condizioni. Sicuramente la compagnia aveva un alto indice di professionalità, riconosciuta da tutti i critici, che ha fondato una vera e propria scuola. Qualcuno di noi ad un certo punto avvertì la necessità di verificare se questa scuola era collocabile altrove, giocabile in altre situazioni.
LA: Adesso il Gruppo della Rocca è ancora operante anche se è diventata una cosa un po’ diversa da quella che era inizialmente.
GB: Sì, a mio parere è un sopravvivente più che un vivente: sono rimaste due persone del gruppo originario e altri due o tre con un certo spirito di gruppo.
LA: Tutto si è quindi istituzionalizzato, come spesso succede.
GB: Sì, certamente i prodotti non hanno più quell’aspetto di novità che era la nostra caratteristica. Fino ad ora ho parlato del Gruppo della Rocca che arriva fino all”83. Poi c’è stata tutta la parte della seconda metà degli anni ottanta in cui già si riscontra una certa crisi e dove si è tentato di recuperare antichi legami come quello con Guicciardini, che aveva lasciato il gruppo. Si diede corso a nuove proposte interne, di cui anch’io sono stato fautore con regie o elaborazioni drammaturgiche, nonché con occasionali rapporti con registi esterni, facendo spettacoli indovinati ma che ormai si collocavano al di fuori di quello che era stato lo spirito del gruppo. Un esempio di ciò è “Negro contro cani” di Koltés, per la regia di Missiroli. Bisogna comunque sottolineare la grande importanza che ha avuto in questo periodo Guido de Monticelli il quale si è reso protagonista di alcune regie con spettacoli ancora vicini alle modalità del Gruppo della Rocca: partecipazione collettiva, presenza del grottesco e comunque alta spettacolarità.
LA: Ecco, con tutta la distanza che bisogna prendere rispetto alle definizioni, voi siete stati considerati un po’ il gruppo che faceva il grottesco.
GB: Be’, era vero in parte. Adesso io non so quale sia la definizione precisa di grottesco. Posso dire che per noi nasceva da un punto di vista critico sulla società e comunque la scelta di un testo, di un argomento scaturiva dalla volontà parodia, ironia nei confronti di un sistema politico, dei costumi di una società e quindi arrivare a volte al limite della caricaturalità dei personaggi, usando: maschere, clownerie, l’avanspettacolo e insomma tutti gli strumenti espressivi di cui ti dicevo. Usavamo i nostri personaggi per descrivere le loro pecche, i loro vizi, i loro difetti, le loro falsità in modo volutamente forzato, in modo da farlo capire in maniera molto chiara e allo stesso tempo in modo di essere didattici, come diceva Brecht.
LA: Un teatro quindi usato come specchio per mettere in evidenza, attraverso il grottesco, i difetti sociali.
GB: Sì, in quel modo critico che andava per la maggiore soprattutto in quegli anni, perché comunque certe proprietà rivelatrici delle pecche sociali, il teatro credo che lo debba avere quasi sempre, altrimenti non so che senso abbia. Oggigiorno esiste ancora, anche se con meno giudizio, però: esiste in modo più pacificatorio, meno eclatante.
LA: Ecco mi offri un po’ l’opportunità di chiederti qualcosa sul lavoro d’attore dopo il Gruppo della Rocca. Ad un certo punto hai deciso di lasciare — come altri tuoi compagni — il Gruppo e di intraprendere altre esperienze artistiche. Come vedi il teatro in questi anni novanta, che ormai sono giunti quasi al termine.
GB: Io sono figlio del mio tempo e rimango figlio del mio tempo, anche se vivo nel tempo in cui vivo, per cui, forse, con una leggera sfasatura per quell’epoca. Io credo, senza esagerare, che siamo tornati forse a un momento simile a quello in cui era partito il Gruppo della Rocca: il teatro è sempre più istituzionalizzato e in questo modo ha coperto anche gli spazi più decentrati soffocando la ricerca che non sia quella che dicono di fare…