L’annunciato Oscar alla carriera a Elia Kazan nell’anno in cui festeggerà anche il suo novantesimo compleanno (ma per questo bisogna aspettare il 7 settembre) non è di quelli che l’Academy dà per risarcimento a chi non ne aveva mai avuti quando era artisticamente attivo. Kazan di Oscar regolari ne ha vinti due, con Barriera invisibile nel 1947 e Fronte del porto nel 1954 (ma entrambi doppi: miglior film e migliore regia) e ne ha fatti vincere ai suoi autori (i soggettisti di Bandiera gialla) e soprattutto ai suoi attori, in quelli e in altri film (tre per Un tram che si chiama desiderio, uno per Viva Zapata e La valle dell’Eden). E la cosa non sorprende, per un regista che al cinema era arrivato un po’ tardi ma avendo prima imparato ogni mistero del palcoscenico e che era stato uno dei fondatori dell’Actor’s Studio oltre che lo scopritore di gente come Marlon Brando, James Dean, Warren Beatty, Eve-Marie Saint, Carroll Baker ecc.
Ma vogliamo credere che questo Oscar alla carriera non sia nemmeno un premio all’età, ai capelli bianchi, alla forza o fortuna di sopravvivere, o meglio che lo sia in un senso un po’ più intimo e profondo. Con i suoi novant’anni da compiere allo scadere del 1999 Kazan diventa simbolicamente (come chi è nato nel 1900, ma bisogna anche esser vivi) uno dei rappresentanti più esemplari del secolo, una sorta di incarnazione del Novecento. E non è di circostanza dire che in lui, dopo aver sentito la modernità, la psicanalisi e la crisi delle certezze, sentiamo ancor oggi i problemi del mondo contemporaneo. In questo greco di Turchia con un nome da ebreo, emigrato a pochi anni da Costantinopoli verso gli Usa, non troviamo solo la base autobiografica di uno dei suoi capolavori, America America (per chi lo vide allora in Italia Il ribelle dell’Anatolia) ma leggiamo le cose di questi giorni, l’oppressione delle minoranze, i popoli in fuga, l’esilio e lo sradicamento. Ma anche l’integrazione: Kazan aveva imparato da piccolo il greco ma anche il turco e cioè — come diceva lui — “sia la lingua degli oppressi che la lingua degli oppressori” e anche questo esprime la sua modernità di uomo diviso e di confine, che a Broadway prima e a Hollywood poi parlerà i linguaggi marginali e antagonisti dell’arte ma senza negare la cultura che l’aveva accolto, senza uscire dalle regole del gioco cinematografico ma sempre turbandolo dall’interno.
Simbolo della sua scissione sarà il gesto cruciale della sua biografia, quando nel 1951, lui che era stato membro del partito comunista, un po’ per rivalsa di essere stato espulso e un po’ per convinta paura della deriva del comunismo internazionale, denunciò al comitato delle attività antiamericane i suoi antichi compagni. Kazan ha poi confessato di continuare a mantenere un sentimento ambivalente verso quel gesto, vergognandosene profondamente e insieme convinto di aver fatto il suo dovere. E i suoi film e anche i romanzi che poi ha scritto più o meno metaforicamente hanno sempre portato il segno di quel dissidio, che diventa manifesto nel suo unico film indipendente e privato, I visitator i, che parla del Vietnam attraverso il fantasma della delazione.
Ma la traccia la portarono tutti i suoi personaggi, divisi e ambivalenti, da Pinky la negra bianca alla sposa bambina Baby Doll al Kirk Douglas del Il compromesso fino al De Niro di Gli ultimi fuochi, gran “tycoon” hollywoodiano ma fragile e inquieto con se stesso. Che la festa dei numeri e delle certezze come l’Oscar premi invece il cantore dell’insicurezza moderna non può che far bene, agli Oscar e a noi.