Eravamo felici, tutti e tre assieme, come un triangolo magico che nessuno poteva spezzare. Io con mia madre; mia madre e mio padre; mio padre con me. Un altro giorno stava per finire, mentre la luce del tramonto arrossava i nostri volti. Passeggiavamo senza meta, piccoli uomini con ombre di giganti. La città era tutta nostra.
Io ero indaffarato a demolire a colpi di lingua un gelato con quattro gusti diversi. In realtà, senza che nessuno lo sapesse, la mia era una missione delicatissima e pericolosa, da cui dipendeva la salvezza della Terra. Un solo movimento falso, una sola leccata sbagliata e l’intero pianeta sarebbe esploso come un palloncino. Non potevo dirlo nemmeno ai miei genitori, nemmeno a loro, perché i servizi segreti mi avevano raccomandato il silenzio.
In quella incrociammo una vecchietta. Una vecchietta minuscola, poco più alta di me, con i capelli dritti dritti e gli occhi azzurri e grandi, un po’ annacquati. La sentii borbottare fra sé e sé: “Mio marito! Mio marito! Poveretto, è finito in quella fessura. Oh, marito mio, chissà quando ti rivedrò.”
Effettivamente sul marciapiede c’era una fessura sottile e tortuosa che sarà stata lunga una sessantina di centimetri. Io non capivo come il marito di quella signora potesse essere finito là dentro, però avrei voluto tanto aiutarla. Purtroppo avevo una mano impegnata con il gelato, mentre l’altra era stretta in quella di mia madre.
L’anziana signora fermò i miei genitori, ma loro non riuscirono a capire che cosa volesse. Mio padre le diede alcune monetine, pensando che stesse chiedendo l’elemosina. Poi ci allontanammo. Ma come? Non avevano capito? Suo marito! Era caduto nella fessura! Lei voleva suo marito! Io mi girai, ma eravamo già lontani. Riuscii solamente a mandarle, in segno di solidarietà, un sorriso al cioccolato.
Un paio di anni dopo mi ritrovai a passare nuovamente per quella strada. Giocavo con la fionda assieme ad altri ragazzini; ero uno dei più bravi a colpire i lampioni, e per fortuna anche uno dei più veloci a scappare.
La fessura era ancora là, magica ed inviolata.
Passò di là un ubriacone. Aveva i capelli giallastri ed una lunga barba da Babbo Natale. Probabilmente non si lavava da prima che io fossi nato. Ogni tanto dava un lungo sorso alla sua fedele bottiglia, poi proseguiva barcollando; di tanto in tanto si fermava, producendosi in una risata sgangherata.
Mi tirai indietro, perché quell’uomo mi faceva un po’ paura. Ma lui mi mise la sua grossa mano sulla mia testa, dicendomi: “Non avere paura, piccolo mio. Non voglio farti del male. Ma ti dirò solo una cosa: sai come sono finito così? Molti anni addietro avevo tutto nella vita: soldi, lavoro, una famiglia. Ero stimato e riverito da tutti; ma un giorno il mio senno è finito in quella fessura.”
Io guardavo lui e la fessura, la fessura e lui, cercando di capire come potesse essere accaduto. Avrei voluto aiutarlo, avrei voluto supplicare quella vorace fenditura che risputasse il suo senno. In quella i miei compagni mi chiamarono perché ero rimasto indietro. L’ubriacone mi disse: “Ora vai, non crucciarti per me, io ho già avuto il mio, e anche adesso non posso proprio lamentarmi. Ma tu hai ancora un bel po’ di lampioni da rompere prima di diventare un uomo. Anche se so che dentro di te lo sei già.”
Così dicendo mi diede una strizzatina d’occhio. Poi mi carezzò la testa e se ne andò, cantando e ridendo nella sua folle allegria. Io corsi dietro agli amici che mi aspettavano. Ancora una volta non ero riuscito ad aiutare una persona. Però decisi quale sarebbe stato lo scopo della mia vita: risolvere il mistero della fessura.
Passò ancora molto, molto tempo. Avrò avuto quindici anni. In quel periodo giravo quasi sempre solo con la mia ragazza. Non avevo più le ginocchia sbucciate ed i graffi sul naso, ma avevo cominciato a leggere autori classici e testi di poesia, che declamavo alla mia bella. Non ci stancavamo mai di camminare su e giù per la città, sempre mano nella mano.
Un brutto giorno passammo davanti alla fessura. Lei si fermò. Mi guardò negli occhi, seria seria. Mi fece quasi paura, non l’avevo mai vista così seria. Poi mi disse: “Non prendertela. È stata una bella cosa, quella che c’è stata fra noi, ma ora non ti amo più. Non so nemmeno se potremo restare amici, perché penso di amare un altro.”
Io caddi dalle nuvole, schiantandomi come un angelo cacciato dal Paradiso. No! Non poteva essere vero! Cosa era successo? Avevo detto qualcosa che non andava? L’avevo trattata male?
Per quanto rovistassi nella memoria, non riuscivo a trovare un episodio, dico uno, che potesse giustificare quella decisione improvvisa.
Così se ne andò, lasciandomi solo senza nemmeno un bacio d’addio. Almeno avessi saputo che quello che ci eravamo dati mezz’ora prima sarebbe stato l’ultimo bacio, non avrei mai staccato le mie labbra dalle sue, sarei vissuto soltanto del suo respiro fino alla fine del tempo.
Me ne andai come un sacco inutile e vuoto, mentre le membra mi parevano di piombo, lasciando alle spalle un pezzo di me stesso.
Ancora una volta non riuscii a guardare nella fessura.
Scoprii in seguito che la gente perdeva un sacco di cose nella fessura: perdeva occasioni, perdeva qualcuno, perdeva se stessa. Anch’io ogni tanto vi perdevo qualcosa. Ma non osai mai guardarvi dentro per scoprirne il segreto, perché ormai mi faceva paura. Portai spesso anche mia moglie in quella stradina, ma non le dissi mai nulla. Non so se mi avrebbe capito, ed inoltre non volevo darle un pensiero.
Oggi ho compiuto ottant’anni, ma li ho passati da solo. Ho perduto un sacco di cose, anche se probabilmente ne ho guadagnate altrettante. Ma forse, a ben ripensarci, è impossibile perdere davvero qualcosa.
Sono entrato in una gelateria, e per festeggiare mi sono preso un enorme cono gelato con quattro gusti diversi. Poi le mie gambe mi hanno portato verso quella stradina. Non avevo più paura; questa volta deciso a risolvere il mistero, togliermi quel peso che mi ero trascinato per tutta la vita.
La fessura c’era ancora. Una comunissima crepa in mezzo all’asfalto, che attraversava il marciapiede come un piccolo fulmine grigio. Mi chinai a terra, perché volevo guardare meglio.
In quella me ne resi conto. Sì, qualcosa davvero avevo perduto. Avevo perduto gli occhiali.
Non riuscii a vedere molto bene, ma scoprii che ormai non me ne importava più.
Ero raggiante, senza saperne il perché. Raccolsi un sasso, poi lo lanciai, colpendo in pieno un lampione. Per fortuna il vigile era voltato dall’altra parte.
Mi uscì dal cuore una risata, la risata sgangherata di un anziano sdentato, risata che assomigliava stranamente a quella di un vecchio ubriacone.
Poco più in là vidi una simpatica vecchietta che aspettava l’autobus.
Aveva i capelli dritti dritti e gli occhi azzurri e grandi, un po’ annacquati. Le sussurrai qualcosa in un orecchio, poi la baciai sulla bocca con passione.
Ci allontanammo, mano nella mano come due quindicenni, fino a confonderci col tramonto.